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L’uomo è ancora capace di liturgia?

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La scorsa estate prima di partire per un campo servizio con un gruppo di adolescenti, abbiamo scelto di vivere una celebrazione. In essa avevamo previsto un gesto, che per noi adulti è molto eloquente perché vissuto almeno una volta l’anno all’interno del triduo pasquale: l’adorazione della croce. In quella celebrazione, dopo il sottoscritto, è stato fatto dagli educatori, poi… si sono alzati tre adolescenti per compierlo… poi, tutti fermi e seduti.

Percepivo che un gesto liturgico, per noi adulti ancora molto importante, per le nuove generazioni rischia di non dire più niente. Quegli adolescenti hanno poi vissuto l’esperienza del campo con impegno e intensità, anche nei suoi momenti di preghiera e catechesi. Non si tratta quindi di miscredenti, o di ostilità verso il crocifisso. Quell’esperienza mi richiama alla mente la domanda che poneva Romano Guardini in una lettera inviata al Congresso liturgico di Magonza del 1964: l’uomo di questo tempo è ancora capace di liturgia? La vedo attuale anche per questo tempo. Intravedo tre nodi critici nel rapporto con la liturgia. Le persone stanno perdendo familiarità con il linguaggio simbolico della liturgia, forse perché stanno perdendo l’aderenza con la realtà e cadono nella banalizzazione di dimensioni qualificanti l’esistenza umana. Il primato del virtuale si accompagna alla banalizzazione del rapporto con il cibo, alla riduzione del corpo a strumento di performances atletiche e fisiche o all’adesione al mito dell’eterna giovinezza, allo svilimento della sessualità umana, allo svuotamento di senso di parole come amore, amicizia, all’esorcismo completo della morte. Urge un impegno educativo: se non si riprende familiarità con la concretezza ed il mistero dell’esistere, con i suoi simboli, nella liturgia ci si trova sempre più spaesati. In secondo luogo stanno facendo la loro parte una pseudo-idea di spiritualità, ed una versione individualista ed intimista di preghiera. Il Concilio, 50 anni fa, ricordava che la liturgia comunitaria è culmine e fonte della vita della Chiesa, ed anche della preghiera personale. Oggi molte persone disdegnano di celebrare l’eucaristia domenicale con la propria comunità ma consumano avidamente momenti di preghiera particolari, in luoghi particolari, o momenti costruiti a propria immagine e somiglianza, in cui le proprie parole o i propri sentimenti valgono di più della stessa Parola di Dio che prende forma nella vita della propria comunità. Qui urge una conversione del nostro modo di essere comunità: non meri centri di aggregazione o organizzazione, ma famiglie in cui ognuno si sente riconosciuto e chiamato per nome, e una liturgia che coinvolga la mente, il cuore e la volontà della persona. Infine le nostre celebrazioni domenicali rischiano di essere riti avulsi dal tempo. Se avvengono oggi, o fra un anno, o fossero avvenute un anno fa, non cambia nulla. La persona fa fatica a ritrovare la propria vita nella celebrazione. Da una parte, la liturgia non potrà mai essere lo specchio del vissuto individuale, altrimenti asseconderebbe il narcisismo dell’uomo contemporaneo. Essa educa la persona a decentrarsi e ad aprirsi ad un mistero più grande. Dall’altra parte essa non può non tener conto della storia e della forma che oggi assumono le domande nel cuore di ogni uomo. Molto, giustamente, è chiesto a noi presbiteri, soprattutto nell’omelia. Ma le nostre comunità potrebbero meglio aver cura della liturgia domenicale approfittando degli spazi di legittimo adattamento che essa concede. Ritengo urgente, per le nuove generazioni, un’iniziazione alla preghiera liturgica e anche personale. • Giordano Trapasso

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