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Io non ho un profilo feisbuc

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C’era una volta, è proprio il caso di dirlo, la bottega, la parrucchiera, l’ambulatorio medico e un sacco di altri luoghi dove si doveva aspettare. Aspettare era, una volta, una delle occupazioni principali della gente. Si aspettava la domenica, si aspettava la festa, si aspettava il raccolto, si aspettava un pagamento, si aspettavano le ferie, si aspettava un bambino, si aspettava … anche la morte.
Oggi, mi sembra di cogliere, non c’è più o comunque si è molto indebolito questo senso di attesa con l’emersione costante di un fenomeno di civile dissociazione scaturito dal “tutto e subito” che si andava gridando solo qualche decennio or sono. Quando, una volta, si aspettava, non si aspettava mai da soli; c’era sempre qualcun altro con cui scambiare due chiacchiere. Le chiacchiere potevano avere dei convenevoli sul tempo, l’umidità, il caldo o il freddo, ma poi arrivavano inevitabilmente al racconto e al confronto su fatti, persone e situazioni di comune conoscenza in ambito locale, nazionale o mondiale.
Era, quindi, un modo per tenersi aggiornati su tanti aspetti della vita e di mettere in comune conoscenze, impressioni ed opinioni. Oggi ormai in bottega non si va più, si va al supermercato dove la fila la fai col numero e mentre aspetti riempi il carrello con le cose sullo scaffale. In parrucchieria vai con l’appuntamento e non aspetti che qualche minuto. Dal medico invece no. Dal medico aspetti delle buone mezz’ore, come anche all’ufficio inps o qualche volta alle poste; qualcosina anche in banca. Una discreta attesa la si fa in autobus e in treno. Tuttavia qualcosa è cambiato radicalmente. Abbiamo smarrito il gusto della chiacchiera. Insomma, anche nei luoghi dove si aspetta non ci si parla quasi più. Tutti sono chini con gli occhi sul telefonino per chattare, che è il moderno termine del chiacchierare, con una serie improbabile di soggetti tramite i social-media (facebook, twitter, …).
Una grande prestazione digitativa, che finalmente dona dignità espressiva alla questione millenaria dei pollici opponibili, è lo spettacolo stupefacente che offrono ragazzi, giovani, adulti e anche qualche persona attempata. In fondo si chiacchiera sempre, ma solo con le persone che ti scegli e non col primo che ti capita. Un gran passo in avanti! Peccato che venga a mancare tutta una serie di linguaggi legata all’espressività del corpo e del viso, all’intonazione, al volume e alla modulazione della voce, al ritmo delle parole, allo sguardo e al respiro.
Insomma, mi pare, stiamo perdendo la persona nella sua completezza espressiva in nome di una comunicazione sintetica e veloce dove utilizziamo un linguaggio in codice fatto di parole chiave ma prive di carica simbolica perché spogliate dalle altre modalità espressive del sentimento. Alla comodità del “sempre connessi” abbiamo sacrificato il godimento di una serena relazionalità umana, navigando in un mare denso di rischi. Certamente il più pericoloso è legato alla compulsività della connessione continua che ci disconnette dalla realtà circostante. Un esempio che tutti avranno sperimentato è l’automobilista che ti precede ad una velocità inspiegabilmente bassa; ti fai cinque chilometri di paziente attesa e al primo rettifilo con linea di mezzeria tratteggiata lo sorpassi; e lì scopri, con la coda dell’occhio, che sta scrivendo sul cellulare sotto la linea del volante per non essere visto da un eventuale poliziotto in posto di blocco. Che nervi!
Tra i più frequenti rischi c’è poi l’indebolimento della privacy. Di protezione se ne fa un gran parlare ma poi uno scrive anche a che ora si lava i denti o quello che prova nel cuore aprendo la finestra della camera la mattina o magari pubblica un selfie prima di togliersi il pigiama! Un altro rischio è l’intelligenza. Per tenere alta l’attenzione sul profilo ti chiedono di aggiornarlo costantemente e tu pubblichi qualcosa che non necessariamente può essere intelligente. Magari pubblichi una foto o una frase oppure un pensiero. Ma il contesto? Infine è certamente chiaro a tutti che se oggi vuoi sapere qualcosa di qualcuno, puoi fare una ricerca su facebook e lì trovi molte informazioni: chi conosce, cosa fa, con chi e perché. Certo non è come avercelo davanti ma puoi fartene un’idea plausibile.
Eh già! Il plauso è un altro rischio (I like), forse il più subdolo. Un latente e neppure ben celato narcisismo nella ricerca del consenso altrui viene a manifestarsi come propulsore dell’indice di visibilità del profilo. Per questi motivi certamente preferisco, con facebook, essere osservante ma non praticante. •
Monica Santini

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Un commento

  1. L’articolo è firmato Monica Santini

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