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Buffet con Umberto Eco

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Milano, Aula Magna dell’Università Cattolica, settembre 2003. Si festeggiavano gli ottant’anni di Luciano Erba; tra le personalità anche Umberto Eco. Eco arrivò con un po’ di ritardo e si sedette in una delle ultime file, e solo dopo che il Prof. Langella lo ebbe notato e invitato a farsi avanti, si accomodò su una poltroncina della prima, seguendo con attenzione quanto accadeva. La cosa, considerando il modo di comportarsi generale a cui ero abituato, mi stupì non poco.
Io partecipavo perché Luciano (Erba) mi aveva fatto l’onore far inserire un mio sonetto tra le 80 poesie di altrettanti poeti che festeggiavano il suo compleanno, e che erano state raccolte in un volume edito da Interlinea di Novara. Fisicamente presenti ne eravamo una trentina (v’era anche Alda Merini), e ognuno recitò il suo testo in ordine strettamente alfabetico per iniziale di cognome. A me toccò la lettura per ultimo (dopo sarebbe stata la volta di Zanzotto, ma non era tra i convenuti) e notai che Eco seguì i miei versi con attenzione (forse perché ero un illustre sconosciuto).

“Non ho letto gli altri romanzi e saggi”.
“Di che ti preoccupi? Io, l’Iliade, l’ho letta 2500 anni dopo la sua pubblicazione”

Dopo la cerimonia, a sera, buffet sulla terrazza di Erba per alcuni dei più stretti amici. Ero tra essi insieme all’Editore Roberto Cicala, Silvio Ramat, un’altra decina di ospiti e Umberto Eco. La terrazza, curata dalla gentile consorte Mimìa, era adorna di piante (c’era persino un melo) e attrezzata con stuoie, sedie a sdraio e a dondolo, poltroncine di vimini. Tra farro e stuzzichini vari, il semiologo, con la sua aria sorniona e divertita tratteggiava profili dei politici italiani (“Gliel’ho detto a Fassino di non rincorrere Berlusconi sul suo stesso terreno”) e raccontava mille varie cose.
Luciano, nel presentarmi, precisò che ero nato in un paese, Smerillo, al cospetto del Monte Sibilla, e lui mi strinse la mano compiacendosi con me per il mio “ruolo” di poeta. «Professore – confessai –, ho letto più volte Il nome della rosa, ma non ancora letto gli altri romanzi e saggi”. “E di che ti preoccupi? – ribatté – Io l’Iliade l’ho letta duemilacinquecento anni dopo la “pubblicazione”!…». «Sta scrivendo qualche altro romanzo?», chiesi nel congedarmi. «Sì, è quasi pronto».
Si trattava, come ebbi modo di leggere l’anno successivo, de La misteriosa fiamma della regina Loana, romanzo di semiologia (cioè non strettamente letterario) intrecciato sul misterioso rapporto che lega la biblioteca interiore della nostra coscienza (come biblioteca di nozioni e ricordi strutturati) e la biblioteca esterna degli “oggetti-avvenimenti” del mondo esteriore. Genialmente ordito, il romanzo presenta nella prima parte il protagonista – bibliofilo e mercante d’alta classe di libri antichi – senza più l’accesso alla biblioteca interiore, a causa di un ictus; nella seconda, a causa di un secondo ictus, si riapre l’accesso alla biblioteca interiore, ma si chiude la porta di quella esteriore. Il protagonista rimane chiuso dentro di sé e, ultima nel panorama della coscienza, ha la visione della neve nera (probabile sottile bonaria ironia di Eco verso la famosa frase: “la neve è bianca se e solo se la neve è bianca”, con la quale il grande matematico Tarski illustrava i principi della logica induttiva).
Anche Il nome della rosa è un romanzo semiologico, e non strettamente letterario, trattandovi l’autore il problema della completezza possibile della verità argomentata contro l’eventualità che l’ironia faccia saltare questa possibilità a favore di uno status di incompiutezza o addirittura di irreperibilità della verità medesima.
Luciano Erba era un poeta in linea con la tradizione, Eco era stato uno dei promotori del cosiddetto “Gruppo 63”, un gruppo d’avanguardia che intendeva spingere in avanti l’esplorazione del linguaggio verso nuovi paesaggi letterari e poetici. Una volta chiesi a Luciano: “Hai mai discusso con Eco del rapporto fra tradizione e avanguardia?” “Giovanni, non ne ho mai discusso”, fu la risposta. Grandezze del pensiero. E di protagonisti.

PS: Pensavo di averlo scritto per Luciano Erba, invece trovo il sonetto in sintonia con l’avventura culturale di Umberto Eco, almeno per come e per quanto posso averla intravista. •

Tante le solitudini, stasera,
che indossano l’abito dell’attesa,
mentre si svela, intima e straniera,
la vana verità d’ombre indifese.

Poco a poco si stempera ogni voglia
di pace e di contesa in una vaga
identità che riveste e si spoglia,
e annega questo cuore, se l’appaga.

Non so se ricercare fuori o dentro
di me, per inseguire luci nuove che non siano galassie senza centro,

firmamento d’indizi senza prove.
È un grande amore, a volte, che mi spinge,
a volte l’ombra di un’immensa sfinge.

Giovanni Zamponi

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