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Seria(l)mente seriale

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«È quasi finito il primo ventennio del duemila e ora si è forse capito che recuperare vecchi mestieri non significa per forza coprirsi di polvere in umide botteghe»
(così un’anziana visitatrice dell’esposizione manifatturiera andata in scena dal 17 al 20 marzo alla nuova Fiera di Roma)

Tutto (concepito) in serie: musica abbigliamento format televisivi. Tutto rigorosamente serial (anche i killer…): facce labbra nasi grottescamente uguali – cosa non si fa per rendersi più brutte di quanto sovente non si sia in realtà!…- cosce liposutte seni di plastica labbra-canotto e zigomi a base di botox, “portenti” della natura ridotti a manichini, identità spezzate da gettare nella pattumiera : tutto deve rispondere a un modello imposto in nome del consumo becero e sfrenato, anche quel che fa di ciascuno di noi un unicum-.
Non c’è più fantasia, tutto si uniforma a un diktat, a un imperativo decretato “dall’alto”, studiato a tavolino per lucrare sulle spente velleità e sulle intelligenze cloroformizzate del popolo bue. Negozi in serie che si dicono in franchising, musica non stop che ripete da sempre un identico copione e così i programmi di MasterChef, isole dei famosi dei fumosi e degli “enzimicci”. E ancora catering e banqueting, alla faccia delle “tipicità”.
Prendiamo la musica (ovvero il mondo del web): miliardi e miliardi di byte compressi, dentro questo universo parallelo c’è tutto eppure non c’è niente… così s’invera il paradosso di Borges, fluttuano nell’etere miliardi e miliardi di note/notizie non stop (e in tempo reale!), ma dove andare a pescare?..: per cui chi ha (sa) tutto non ha (sa) niente, perché questo mare magnum – sempre per paradosso – fa sì che ogni cosa diventi uguale all’altra in maniera inquietante e parossistica, perché non c’è tempo di metabolizzarla, assimilarla, vagliarla con spirito critico.
Autori generi nuove tendenze tutte confinate in 8 giga, una vita intera non basta per poterli ascoltarli tutti: ma che cosa c’è da “ascoltare”?… si salta come grilli da un brano all’altro senza capire chi lo esegue, né come e se è stato bene eseguito. Ma che cosa vogliamo?… abbiamo tutto e tutto dobbiamo consumare perché tutto in una spirale pazzesca diventi vecchio e sia da cambiare (buttare), e così all’infinito. Tribù acefala di consumatori imbelli – come “gli altri” vogliono – “sentiamo” tutto per non sentire niente, al ritmo tantrico della martellante colonna sonora, sghemba e “distonica”, della quotidiana peregrinazione: e non è come un tempo… quando la musica veniva centellinata annusata toccata ‘ticcata’ (il long playing che occhieggiava dalla foderina, ricordate?); e così qualsiasi idea pensiero di chi abbia il coraggio di manifestarlo e dirlo apertamente, senza buttarlo nel guazzabuglio dell’indistinto: ché è proprio l’indistinto il peccato originale (mortale) di questa temperie socio-culturale di omologazione piatta verso il basso. Burattini a (tele)comando, così “finti” così “reali”, tutti dobbiamo rispondere a un unico modello perché così vuole chi manovra la stanza dei bottoni e ne muove i fili.
Scordiamoci quindi il lavoro artigianale, il lavoro di nicchia e olio di gomito che ancora c’è, anzi, non scordiamocene, ed entriamo in punta di piedi nella bottega del bric a brac e delle chincaglierie; o dell’arte senza tempo, respirandone la magia… L’artigiano di bottega esiste, esiste ancora, discosto dall’ombelicus mundi, ma noi spesso e volentieri non ce ne accorgiamo. O non vogliamo accorgercene… perché solo questi umili e solerti, silenziosi e sapienti facitori dell’immenso possono dare uno schizzo di colore a un mondo opaco e amorfo.
Diversamente, “belli e uguali” diventa sinonimo di bruttissimi e straniati plasticati replicanti. •
studiolegale.fedeli@gmail.com

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