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Monache a prova di sisma

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Marnacchia: il rifugio delle benedettine di Amandola

La destinazione era un’altra. Capita però che qualcosa attragga di più e si cambi meta.
L’Abbazia dei santi Vitale e Ruffino resta sempre di una suggestione unica.
Lascio l’auto, faccio un giro, la chiesa è chiusa, e prendo a piedi per Marnacchia: un promontorio che si slancia su Amandola.
Tre chilometri tra vegetazione che s’intreccia ad arco proteggendo dal sole.
Sul crinale incontro un ciclista che riprende fiato. Due chiacchiere tra noi. Non è marchigiano. Una piccola lepre scappa per la campagna di grano, papaveri e ciliegie: orecchie dritte e velocità notevole.
Amandola è molto più sotto. Si scorge Sarnano. Sul versante opposto: il punto trigonometrico della montagna di Montefalcone, con torre e campanili che spuntano sul fianco destro. Di Smerillo, solo i cipressi del camposanto.
Nello zaino porto Il Piccolo Principe: «Non si vede bene che con il cuore». Andiamogli dietro, e così riemerge una vecchia canzone: «Parsifal, Parsifal non ti fermare e lascia che sia la voce unica dell’ideale ad indicarti la via. Sarò con te io ti ho messo una mano sul cuore…».
Marnacchia è una spruzzata di case, un po’ qua un po’ là. Si vedono i segni del terremoto. Ma si incontrano anche villette ben salde, in pietra di fiume, inzuppate nel verde.
Tre cani sotto un olmo fanno la guardia ad un agglomerato di abitazioni. Non gradiscono il nuovo venuto.
Passa una panda della Forestale. L’autista saluta. Anch’io sono vestito di verde. Avrà pensato a un collega.
La piccola chiesa di Santa Maria è andata giù. Non c’è più tetto. Hanno messo in sicurezza la metà delle mura, dal basso in su.
Incontro la signora Giovanna Galbiati. È la titolare della Querceta: quasi un borghetto con quattro case recuperate, un B&B molto bello, nel silenzio dinanzi ai Sibillini, prato curato, stanze arredate con mobilio restaurato dall’ex insegnante di lettere a Bergamo. In un salottino noto una Madonna della Tenerezza, dono di un’artista ospitato.
Continuo la camminata, a scendere. Un canto! Non è quello degli uccelli. Voci femminili. Un segnale un po’ sbiadito indica spartanamente: «Benedettine». È la comunità di Amandola sfollata dall’antico monastero. Seguo la melodia. Al cancello, quella che poi mi indicheranno come suor Gloria, scava con la zappa e mette pietre per un muretto. È nigeriana e lavora sorridente. Nigeriane (quattro) sono anche quelle della musica. Le scorgo da una finestra del piano terra. Benedictus Deus: «stanno imparando la melodia in latino per poi passare al Gregoriano» mi spiega il maestro Sandro Barchetta da Montemonaco. Un’altra monaca sta lavorando con la macchina per cucire, un’altra ancora s’ingegna a preparare ciliegie per la marmellata.
Suor Scolastica è la Badessa. Mi fa entrare. L’ospitalità benedettina è nella Regula. La casa di campagna è spaziosa, certo non come il monastero lesionato. Ma ci si adatta.
Stanno recuperando spazi interni ed esterni. Arriverà un container. Le suore africane vorrebbero allevare conigli. La Badessa ci sta riflettendo.
Comunità allegra e frizzante. Mi rimetto in marcia. Sono contento. Mi assale il tormentone di mia nipote Elisabetta:
«Ma il coccodrillo come fa? Booooh».
Come si potrebbe viver meglio! •

 

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