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Tra i Paria Italiani in un paesino di 120 anime

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“Ecco la sua lingua, il suo elemento: il soliloquio con le pecore, l’unico uso che ha fatto del Dono della Parola in ottantaquattro anni di vita. Ha imparato la loro lingua e non la mia. E’ più fratello loro che mio. E vesto lana e mangio cacio senza rimorso” (Don Lorenzo Milani, Esperienze Pastorale, pag. 314).

Dopo i sette anni trascorsi a San Donato, don Milani fu assegnato alla parrocchia di S. Andrea a Barbiana, una sperduta frazione alle pendici del monte Giovi, un “ideale penitenziario ecclesiastico” per un prete troppo scomodo, come ebbe a dire Giampaolo Meucci, suo amico. Barbiana all’arrivo di don Milani contava appena cento venti persone, alcune delle quali progettavano di andarsene quanto prima per sfuggire alla solitudine e alla miseria del luogo. Poche case si distribuivano vicino alla chiesa e intorno ai boschi. La Parrocchia doveva essere chiusa, rimase aperta solo per confinarvi don Milani che arrivò a Barbiana il 16 dicembre 1954 in una giornata fredda e piovosa, accompagnato da Eda Pelagatti, la perpetua del vecchio don Daniele Pugi e da Giulia Lastrucci, vedova Pelagatti, la mamma di Eda. Il luogo era del tutto inospitale. Mancavano l’acqua, la luce e il telefono. Non c’era nemmeno la strada, ma una mulattiera dopo il bivio di San Martino. Il comune è Vicchio del Mugello, dove passa la ferrovia che da Faenza arriva a Firenze, attraversando l’Appennino. Un altro si sarebbe subito arreso ma don Milani aveva una tempra di combattente puro. Sarà proprio dalla sofferta solitudine di questa montagna che il suo messaggio si diffonderà ovunque. Come aveva fatto a San Donato, anche a Barbiana, don Milani decise di allestire quasi subito una scuola serale, divisa in due classi. In una lettera indirizzata alla mamma, scriveva: “Tutto è nuovo, tutto è accetto, tutto appassiona. Basta una trovata per sera e stanno lì occupati e appassionati fino alle undici o mezzanotte. Per esempio, una sera ho procurato i moduli di conto corrente, un’altra i vaglia, un’altra i telegrammi, un’altra i moduli del comune. Una sera si è fatta la pianta della scuola e ieri l’altro s’è fatta alta politica… Insomma la scuola è un fuoco di fila di gioie e si vede i ragazzi rifiorire di minuto in minuto” (Don Milani, Lettere alla mamma, pag. 121- 122).
Alla mamma, signora Alice, che lo invitava a non legarsi troppo a Barbiana, tanto, prima o poi gli avrebbero trovato una destinazione più decente, scriveva: “Non c’è motivo di parlare del domani. Non ti basta l’affanno d’ogni giorno? E neanche c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza d’una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di far del bene si misurano sul numero dei parrocchiani. Sai bene che ormai non ho più bisogno di andare a cercare nessuno, sono loro che mi cercano e non ho un minuto libero” (don Milani, Lettere alla mamma, pag. 118).
Nella stessa lettera, don Milani informava la mamma che, raccolte le olive, i ragazzi avrebbero messo mano a fare la strada fino alla chiesa: “A primavera in tutti i modi deve arrivare la prima automobile fino alla Chiesa. Così potrai venire più spesso e forse troverò anche chi porterà il gas fino a casa”.
Don Milani superato, perché parlava del mondo contadino che non esiste più da decenni, sentenziava un collega nella scuola dove insegnavo, qui a Civitanova Marche. Non aveva letto nulla di don Milani, forze nemmeno Lettera a una professoressa eppure si sentiva in diritto di tranciare giudizi. Tanti, nella chiesa e nella società civile, non pensano ad altro che a ricoprire posti di comando e orientano tutta la propria vita e le conoscenze per raggiungere questo traguardo. Proprio per legarsi in modo definitivo al luogo, il giorno dopo l’arrivo a Barbiana, don Milani scese a Vicchio per andare a trovare don Rossi: “Renzo, portami in comune”, chiese don Lorenzo. “In comune? A che fare?”, domandò meravigliato l’amico. “Voglio comprarmi la tomba del camposanto”, gli rispose. E don Renzo Rossi: “Quanto tu s’ bischero”. La tomba lo avrebbe fatto sentire legato alla sua nuova gente, in vita e nella morte.
La gente di Barbiana era formata da montanari e da emarginati. Benito era un omone con un cervello da bambino. Qualcuno pensò di rinchiuderlo in manicomio ma il priore si oppose: “Per la famiglia è un grosso dolore e per quel povero figliolo è finita. Preferisco difendermi a modo mio: con l’affetto e mettendo un piatto di più a tavola”, spiegò. La donna, approdata a Barbiana dalla Calabria, non capiva una parola d’italiano. Una domenica, in chiesa, il bambino che portava con sé si sime a strillare. Don Lorenzo, garbatamente, la invitò ripetutamente, a portarlo fuori. La donna non capiva quello che il sacerdote le diceva. All’improvviso, si slacciò il reggipetto e iniziò ad allattare il pupo. I fedeli si scandalizzarono. Don Milani giustificò la donna e rivolto ai fedeli disse: “Lo faceva anche la Madonna, perché vi scandalizzate? L’avete presente quel quadro che la ritrae mentre allatta il bambino con la poppa tutta fuori?”. La domenica pomeriggio si ritirava in archivio con chi desiderava parlargli in privato. Beppe, un vecchio contadino di un podere che fruttava poco, aveva il dente avvelenato verso il figlio perché voleva scendere in pianura e trovarsi un altro lavoro. Incaricò don Lorenzo di risolvere la controversia. “Vede, Beppe, gli disse don Milani, se lei mi dice che suo figlio le manca di rispetto, vado e lo piglio a bastonate. Ma se lei mi dice che le premono di più i peschi del suo figliolo, allora le dico che ha torto lei e che è lei a dover cedere”. Le parole convinsero il vecchio contadino. A Barbiana abitavano don Milani, Eda, la mamma di Eda, Giulia Lastrucci, Michele e Franco Gesualdi. Questa era la sua famiglia, mentre a Firenze, come amava sottolineare nelle lettere alla mamma, vivevano i suoi parenti: Adriano, il fratello, Elena, la sorella, il nipote Andrea e la mamma Alice. Michele e Franco Gesualdi, orfani di una famiglia pugliese emigrata a Prato in cerca di lavoro agli inizi degli anni cinquanta, erano stati portati a Barbiana da don Ezio Palombo, altro grande amico di don Milani.
Ricordi personali. Ho conosciuto Franco Gesualdi in una domenica imprecisata dell’estate 1976. Facevo il soldato a Firenze presso l’ospedale militare di via San Gallo. Quel giorno, con un commilitone di La Spezia, decisi di andare a Barbiana, in treno. Vestiti da militari, arrivammo alla stazione di Vicchio del Mugello. Poco lontano, trovammo una cartina del comune esposta su un grande pannello, dove era indicata la frazione di Barbiana, distante dal capoluogo circa sette chilometri. Salire a piedi non era il caso. In questi frangenti si va dal parroco per avere informazioni. La canonica era proprio nel centro del paese. Ci ricevette don Vittorio Vacchiano, vicario foraneo ai tempi di don Milani. Con lui c’era anche don Ermindo Corsinovi, compagno di corso di don Milani. Trovai che quanto Neera Fallaci aveva scritto nel suo libro Dalla parte dell’ultimo, vita del prete Lorenzo Milani su questi due sacerdoti, era la pura verità: buoni e affabili come pochi altri. Ci dissero che Franco Gesualdi quella domenica si trovava proprio a Barbiana e si raccomandarono di non aver verso di lui l’atteggiamento da turisti curiosi e saccenti, tanto era legato al priore. Accettammo di buon grado il consiglio. Don Ermindo ci diede le chiavi della propria macchina, una vecchia cinquecento che trovammo parcheggiata poco lontana. Ci disse di riportarla nello stesso posto, cosa che facemmo nella tarda serata, dopo aver fatto visita a Barbiana. Qui trovammo Franco Gesualdi, sua moglie e la figlioletta. Visitammo i locali della canonica, i resti della piscina all’aperto e il piccolo cimitero di Barbiana, scambiando poche parole con Franco, soprannominato “Francuccio” o “Cuccio” dal priore. Oggi, Franco Gesualdi vive a Vecchiano, vicino a Pisa, assieme alla moglie e le due figlie. Fa l’infermiere e guida il “Centro, nuovo modello di sviluppo contro lo sfruttamento delle multinazionali e per l’affermazione di una nuova cultura dei consumi” (Mario Lancisi, Don Milani, la vita, pag. 96).
La scuola serale finì presto a Barbiana a causa dell’esodo delle famiglie verso il piano. Rimasero quelle che avevano ancora i bambini piccoli che “conoscevano tutto sulla vita del bosco con i suoi infiniti nidi, rettili, piante, col volgere delle stagioni e delle ore” (Don Milani, Lettere, pag. 56), per il resto si trovavano in uno stato di completa ignoranza.
Il loro destino era quello di uscire dalle Elementari semianalfabeti e di entrare nella vita e nella società timidi e disprezzati, in una condizione profondamente subalterna sotto il triplice risvolto umano, sociale e culturale. Per convincere i genitori, quelli che non avevano ancora abbandonato la montagna, a mandare i loro figli a scuola, usò soprattutto l’argomento della promozione sociale. Furono pochi i babbi e le mamme che non si lasciarono convincere.
Nel 1957 funzionava già a Barbiana, in canonica, una scuola di avviamento professionale, privata e assolutamente gratuita, per i sei ragazzi che avevano finito la quinta: Gosto, Aldo, Giancarlo, Carlo, Silvano e Michele. I sei alunni davano ogni anno gli esami come privatisti alla “Benvenuto Cellini”, a Firenze. Patetica è la descrizione che Milani fa dei giorni in cui i suoi “Eroici montanari erano impegnati in una titanica lotta contro la città. Escono di casa alle cinque del mattino e sono di ritorno verso le tre del pomeriggio. Il ritorno è una cosa molto poetica. Donne, vecchie, bambini, prete sono già un’ora prima a scrutare in fondo alla valle finché non si vede un po’ di fumo che è il treno. Allora si parte tutti dalle nostre case e, sempre con gli occhi fissi a un nastrino bianco che è la strada, ci si avvia verso il posto dove arriva la macchina. Finalmente appare un puntolino nero che solo chi è di quassù sa riconoscere per un’automobile. E un quarto d’ora dopo arriva l’automobile piena di notizie che i genitori analfabeti ascoltano con venerazione come s’ascolta il respiro misterioso dello stregone” (Don Milani, Lettere, pag. 118- 119).
Finché i ragazzi frequentavano le scuole professionali, non c’era da preoccuparsi, perché fin dall’inizio la scuola di Barbiana funzionava undici ore al giorno per 365 giorni all’anno (366 negli anni bisestili), con la domenica e le feste comandate che si distinguevano dagli altri giorni solo per la messa e la spiegazione del vangelo. Gli allievi finivano per avere una cultura enciclopedica, superiore di gran lunga a quella che si dava nelle scuole professionali della città. Le cose invece non andarono nel verso giusto quando Barbiana divenne una sorta di Lourdes per i bocciati nelle scuole medie del Mugello.
La legge istitutiva della Scuola Media unica, obbligatoria e gratuita è del 31 dicembre 1962, ma non risolse per niente il problema dell’insegnamento pensato solo per chi non aveva nessun problema d’apprendimento. Tra i ragazzi disadattati che arrivarono a Barbiana, c’erano quelli che pensavano di studiare solo le materie da ripetere a ottobre e il resto del tempo a divertirsi e a dare spanciate nella piccola piscina all’aperto che il priore aveva costruito perché i suoi piccoli montanari vincessero la paura dell’acqua. Invece si ritrovarono a studiare un po’ tutto con una disciplina e un’austerità da convento benedettino che metteva in serio disagio chi era abituato al pallone, al cinematografo e ai balocchi vari: “La vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare” (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, pag. 12).
Altro che scuola facile la Scuola di Barbiana. Molti non riuscirono ad assimilare proprio niente e per il prete toscano furono le sconfitte più amare. L’autorità del maestro invece era accettata di buon grado dagli allievi più assidui, quelli che sapevano di trovare in don Milani un padre, un fratello, oltre che il maestro. Mons. Bensi, il direttore spirituale di don Milani, così ha detto: “Ha gioito, ha sofferto, è stato in ansia per i suoi ragazzi come solo un genitore può fare… Con loro si comportava come le mamme: Sei un assassino! Però ti voglio tanto bene. Secondo me, le sue lettere più belle sono quelle che scriveva ai ragazzi quando erano all’estero: Fatti la fotografia, voglio vedere se sei grasso o sei insecchito. Voglia di pastasciutta? Bisogno di quattrini? Te mostri le guance incavate. Ti compri del mangiare in più? Si comportava con loro come fanno le mamme. C’era in lui questa componente femminea sotto l’apparente durezza. Femminea nel senso nobile e bello della parola: dolcezza e tenerezza, comprensione e apprensione” (N. Fallaci, pag. 324- 325).
Don Milani ha anticipato di cinquant’anni ogni progetto Erasmus. Mandava, dopo averli preparati adeguatamente, i suoi ragazzi all’estero perché imparassero le lingue e vincessero la loro atavica timidezza di montanari. L’autorità del maestro in don Milani si fermava agli strumenti, non imponeva i contenuti che dovevano essere dati da ciascun allievo con ogni libertà. “Stanotte – si legge in una lettera di risposta a Michele Gesualdi che, mentre era sindacalista a Milano, aveva espresso delle critiche alla Scuola di Barbiana – non potendo dormire per la tosse, ho pensato tutt’a un tratto che era meraviglioso vedere sgorgare dalla mia scuola un virgulto vigoroso e diverso, con tutti i suoi segreti gelosi, con un’infinità di ideali in comune con me e con un’infinità di segreti suoi che non spartisce con nessuno, nemmeno col fratello prete babbo che io sono per lui. Che era meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è già un uomo e non ha più bisogno di balia, e qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso. Ti voglio tanto bene e penso sempre a te, quella sera stessa ho sputato un po’ di sangue (Don Milani era già stato colpito da un male incurabile che lo porterà di lì a poco alla tomba), ma sul momento mi ha fatto sorridere di gioia, mi divertiva l’idea di sputar la vita nell’attimo in cui avevo finalmente capito quel che non avevo ancora capito, cioè che la scuola deve tendere tutta nell’attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: Povera vecchia, non ti intendi più di nulla e la scuola risponde con la rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo, felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle” (Don Milani, Lettere, pag. 199- 200).
Il fine ultimo di ogni scuola, don Milani lo aveva ben chiaro in questa lettera. Possono dirlo il maestro e il professore dopo aver insegnato nella scuola pubblica o privata che sia? Non lo penso.
La società civile attribuisce alla scuola mille compiti, ma gli operatori scolastici non contano nulla. Sono meno di niente per una mentalità diffusa che mette al primo piano l’apparire e non l’essere, cioè il vuoto riempito di niente.
Anche la scuola non sfugge a questo pericolo. L’ingegneria didattica sempre rinnovata, si è passati dal PEI (Piano Educativo d’Istituto) al POF (Piano dell’Offerta Formativa), diventato PDOF (Piano Didattico Offerta Formativa,) muore tra le mani perché fredda e lontana dalla vera realtà dell’alunno. Nobiltà della programmazione e miseria dei risultati raggiunti.
Gli insegnanti non vogliono avere problemi di sorta nel proprio lavoro. Anche il bambino più vivace, fin dalla scuola materna, è visto come chi destabilizza il gruppo.
Barbiana o dell’inclusione, è un libro scritto da Aldo Bozzolini, uno dei primi sei allievi della scuola. A Barbiana “Il miracolo dell’inclusione è stato possibile non solo grazie al carisma del Priore ma anche per la volontà di un gruppo di genitori che si allearono costruendo intorno ad una persona un muro di calore umano e ricevettero in cambio un futuro migliore”.
Oggi, oltre agli alunni di casa nostra ci sono alunni stranieri che non conoscono la lingua italiana. Gli uni e gli altri sono portatori di DSA (Disturbi specifici d’apprendimento) e di BES (Bisogni Educativi Speciali). È una doppia sfida che è sulla scena ormai da diversi anni. L’uomo del futuro, sulle strade di don Lorenzo Milani è il titolo del romanzo di Eraldo Affinati.
Don Milani non era solo a sognare una scuola diversa. Mario Lodi con i suoi alunni di Piadena (Cremona), Albino Bernardini con il suo romanzo Un anno a Pietralata (Roma), Gianni Rodari, don Milani con L’obbedienza non è più una virtù, e Lettera a una professoressa ci hanno comunicato una loro idea di scuola.
Quando nasceranno altri don Milani, Mario Lodi, Gianni Rodari, Albino Bernardini, pur in un contesto storico diverso? Il coro, per cantare, ha sempre bisogno di un maestro. •

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