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De l’infinito, universo e mondi

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“Et inhorresco et inardesco: inhorresco, in quantum dissimilis Ei sum, inardesco, in quantum similis Ei sum”
Agostino di Tagaste

Il sacro è una categoria che da sempre ha affascinato e suscitato metus reverentialis nell’uomo. Sacro, etimologicamente, significa separato: il sacro è una sorta di recinto in cui sin dall’antichità veniva “relegata” la Divinità, che era Altro dall’essere umano. Tra i categorema, il sacro, pur essendo meta-fisico – e dunque interdetto all’uomo -, è una dimensione cui l’uomo non può rinunciare, perché rispecchia quell’anelito all’Altro (con l’A maiuscola), insopprimibile sin dal primo vagito, dal primo affacciarsi alla luce. Scetticismi gnosticismi posizioni di neutralità e relativismo non riescono comunque a spazzare via il campo da una “realtá” che urge continuamente alle porte dell’anima, in quanto con-sub-stanziale all’anemos, proiezione di un originario de-siderium; può essere il riflesso della Bellezza, come diceva Dostoevskij, il senso di sgomento sposato al sublime cantato dal filosofo Immanuel Kant in pagine di esemplare valore filosofico.
Ma il sacro – come afferma Rudolf Otto – è sopra ogni altra cosa fascinans ac tremendum (“quando ti conobbi – scrive Agostino nelle Confessioni – contremui amore et horrore”), affascinante e tremendo insieme: tal che nessuno potrebbe resistere, come dice nella quinta elegia Duinese il poeta Rainer Maria Rilke, allo sguardo di imperiosa audacia e superna bellezza dell’Angelo, ché ne morrebbe. Lo stesso Otto conia per questa sfera la definizione di numinoso ovvero di irrazionale – ossia non traducibile in concetti e termini razionali -, che è poi il sentimento di cui non si può fare a meno in quanto congenito allo spirito dell’uomo e al suo Sé – junghianamente parlando.
Quando questa visione, propria dei pagani, viene elevata alla figura di Gesù Cristo, l’Incarnazione si fa evento divino e umano al tempo stesso, e di-segna le direttrici del sacro inscritto in un nuovo “rivoluzionario” Credo.
L’incarnazione del Verbo, pur restando all’interno del perimetro del Sacrum, agisce dinamicamente ab intra per espandersi ad extram, nel senso che – dal punto di vista fenomenologico – la Charitas che ne emana, dallo spazio dedicato alla divinità, “fugge” per soffiare sulle cose periture, incondizionatamente donandoSi. L’uomo-Dio si “affranca”, così, per farsi umile servitore e scrivere il nuovo patto di alleanza tra Dio e gli uomini, già sancito dalle Tavole ma drammaticamente infranto.
Il Cristo irraggia nel suo cammino una Luce che non è di questo mondo ma che s’insemina in questo mondo facendo nuove tutte le cose in forza di una dynamis che si autopropaga e dai cieli inattingibili si posa sulle cose di quaggiù per trans-formarle, divinizzandole. Il sacro che nella liturgia viene riproposto è “iper-sacralizzato” dal Corpo e Sangue dell’Unto, è anticipo della Gerusalemme celeste, di là dei vieti schematismi che infoltiscono, ammorbandola, la religione, ridotta a puro devozionismo. Pensiero anticipato e innalzato ai Cieli dell’Arte da tanti ingegni: nel campo della letteratura pensiamo al Dostoevskij de I fratelli Karamazov, e alle parole dello starez Zosima. O allo stupore che coglie in una epifania di Grazia lo scienziato Francis Collins: “In un bel mattino di autunno, mentre per la prima volta passeggiando sulle montagne mi spingevo all’ovest del Mississippi, la maestà e bellezza della creazione vinsero la mia resistenza. Capii che la ricerca era arrivata al termine. Il mattino seguente, al sorgere del sole, mi inginocchiai sull’erba bagnata e mi arresi a Gesù Cristo”. •

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