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“L’obbedienza non è più una virtù”

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Don Milani, in data 27 luglio 1965, comunicava ai ragazzi di Barbiana all’estero, che la sua lettera ai cappellani militari era stata incriminata e che lui stesso era stato convocato presso il tribunale di Roma per il processo che si sarebbe dovuto tenere il 30 ottobre 1965. I capi d’imputazione riconosciuti a suo carico erano: incitamento alla diserzione e alla disubbidienza militare. Assieme a lui era stato condannato Luca Pavolini, direttore di Rinascita per aver pubblicato la lettera di risposta ai cappellani militari. Tutti i giornali cattolici e i preti ai quali don Milani aveva mandato la stessa lettera avevano brillato per il silenzio più completo. Niente di nuovo sotto il sole. Scriveva Ignazio Silone nell’articolo ricordato in una precedente puntata: “La nostra tradizione esige che il prete sia un benpensante, un uomo d’ordine, un uomo dello statu quo, fascista sotto il fascismo, democratico in democrazia, socialista (perché no) quando il sole dell’Avvenire sarà al suo meriggio. Chiunque si discosta da questa regola, viene perseguitato”. In una lettera indirizzata alla mamma, che la informava come sempre su tutto, don Milani scriveva: “Mi piacerebbe sapere come si può impostare la difesa perché se sapessi che si può entrare anche nel merito dei fatti storici allora vorrei divertirmi da qui a ottobre a studiare storia coi ragazzi e arrivare là tutto verve nutrita di base storica documentata e spiritosa. Se invece devo studiarmi le opinioni dei teologi, preferisco non ci andare nemmeno e tanto meno se dovessi studiarmi il problema giuridico”.
In un’altra lettera scrive: “Sto chiuso in archivio dalla mattina alla sera per scrivere la lettera (Lettera ai giudici). Poi naturalmente vengono visite a farmi perdere tempo. Comunque è quasi finita. Ho scritto a diversa gente per avere informazioni che mi occorrevano per renderla documentatissima. Francovich ne ha letta una prima stesura e ci ha dato diverse notizie utili”. Carlo Francovich, professore di storia all’Università di Firenze, era uno degli amici che avevano fatto la resistenza con il professor Adriano Milani, fratello di don Lorenzo. Anche il prof. Agostino Ammannati fu coinvolto in questa ricerca d’informazioni. Andò a scovare un discorso che Benedetto Croce aveva tenuto a Roma, al teatro Eliseo, il 21 settembre 1944, dove esaltava la guerra partigiana e l’anelito alla libertà dell’Italia nella guerra contro la Germania. Ma nella stesura della lettera, don Milani non utilizzò affatto il discorso del filosofo, perché gli pareva stonato che un prete si rifacesse alle dichiarazioni di un liberale, per quanto autorevole. È vero comunque che la stesura della Lettera ai Giudici procedeva lentamente. Innanzitutto, don Milani era interessato a scrivere cose documentate. Si sa con una certa precisione che il priore di Barbiana, il 29 agosto 1965, aveva ricevuto dalle mani di padre Ernesto Balducci il passo dello schema tredici, la futura Gaudium et Spes, nel quale il Vaticano II si stava pronunciando sull’obiezione di coscienza e sulla guerra giusta. La stesura era stata distribuita sub secreto ai vescovi. Don Milani fa in tempo a inserire nella lettera ai giudici il pensiero del Concilio Vaticano II: “Proprio in questi giorni ho avuto conforto dalla Chiesa anche su questo punto specifico. Il Concilio invita i legislatori a avere rispetto (respicere) per coloro i quali «o per testimoniare della mitezza cristiana, o per reverenza alla vita, o per orrore di esercitare qualsiasi violenza, ricusano per motivo di coscienza o il servizio militare o alcuni singoli atti di immane crudeltà cui conduce la guerra». (Schema 13 paragrafo 101. Questo è il testo proposto dalla apposita Commissione la quale rispecchia tutte le correnti del Concilio. Ha quindi tutte le probabilità d’essere quello definitivo)”. I Cappellani militari avevano definito vili gli obiettori di coscienza. Don Milani scrisse al professor Giorgio Peyrot dell’Università di Roma, che stava allora curando la raccolta di tutte le sentenze contro gli obiettori italiani. Dal docente voleva sapere se e quando in tali sentenze fosse stata usata la parola viltà o un’altra equivalente. Nessuna sentenza conteneva la parola viltà: “Il prof. Giorgio Peyrot dell’Università di Roma sta curando la raccolta di tutte le sentenze contro obiettori italiani. Mi dice che dalla liberazione in qua ne son state pronunciate più di 200. Di 186 ha notizia sicura, di 100 il testo. Mi assicura che in nessuna ha trovato la parola viltà o altra equivalente. In alcune anzi ha trovato espressioni di rispetto per la figura morale dell’imputato. Per esempio: «Da tutto il comportamento dell’imputato si deve ritenere che egli sia incorso nei rigori della legge per amor di fede» (2 sentenze del T.M.T. di Torino 19 Dicembre 1963 imputato Scherillo, 3 Giugno 1964 imputato Fiorenza)”. Don Milani aveva mandato a Roma il giovane Aldo Bozzolini, alunno di Barbiana, per compiere il lavoro d’indagine sul materiale messogli a disposizione dal prof. Peyrot. La stesura definitiva della Lettera ai giudici porta la data del 18 ottobre 1965. Don Milani, non potendo andare a Roma a causa della malattia, scrive: “Signori Giudici, vi metto qui per scritto quello che avrei detto volentieri in aula. Non sarà, infatti, facile ch’io possa venire a Roma perché sono da tempo malato. Allego un certificato medico e vi prego di procedere in mia assenza. La malattia è l’unico motivo per cui non vengo. Ci tengo a precisarlo perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l’accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini”. Aveva pensato anche di rinunciare al difensore d’ufficio, non gli era stato concesso. Una stoccata la riserva a Rinascita, rivista coimputata con lui al processo: “Una precisazione a proposito del difensore. Le cose che ho voluto dire con la lettera incriminata toccano da vicino la mia persona di maestro e di sacerdote. In queste due vesti so parlare da me. Avevo perciò chiesto al mio difensore d’ufficio di non prendere la parola. Ma egli mi ha spiegato che non me lo può promettere né come avvocato né come uomo. Ho capito le sue ragioni e non ho insistito. Un’altra precisazione a proposito della rivista che è coimputata per avermi gentilmente ospitato. Io avevo diffuso per conto mio la lettera incriminata fin dal 23 Febbraio.
Solo successivamente (6 Marzo) l’ha ripubblicata Rinascita e poi altri giornali.  È dunque per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch’io trovo incriminata con me una rivista comunista. Non ci troverei nulla da ridire se si trattasse d’altri argomenti. Ma essa non meritava l’onore d’essere fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non violenza. Il fatto non giova alla chiarezza cioè all’educazione dei giovani che guardano a questo processo”. Il comunicato dei cappellani militari conteneva un’inesattezza: “Solo 20 di essi erano presenti alla riunione su un totale di 120. Non ho potuto appurare quanti fossero stati avvertiti. Personalmente ne conosco uno solo: don Vittorio Vacchiano pievano di Vicchio. Mi ha dichiarato che non è stato invitato e che è sdegnato della sostanza e della forma del comunicato. Il testo è infatti gratuitamente provocatorio”. Dopo aver ricordato che in tutte le sentenze contro gli obiettori di coscienza non c’è traccia della parola viltà, don Milani scrive: “Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande «I care». È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego». Il comunicato dei cappellani militari, quando arrivò alla Scuola di Barbiana, era vecchio di una settimana. Altri sacerdoti o giornalisti avrebbero potuto rispondere. Non l’avevano fatto. L’aveva fatto don Milani con i suoi ragazzi, tirandosi dietro minacce e intimidazioni di ogni genere, tanto che il maresciallo dei carabinieri di Vicchio, Ettore Bianchini, consigliò don Milani di accettare, in forma discreta, la protezione dei suoi uomini: “Ci sono arrivate decine di lettere anonime di ingiurie e di minacce firmate solo con la svastica o col fascio. Siamo stati feriti da alcuni giornalisti con «interviste» piene di falsità. Da altri con incredibili illazioni tratte da quelle «interviste» senza curarsi di controllarne la serietà. Siamo stati poco compresi dal nostro stesso Arcivescovo (Lettera al Clero 14-4-1965). La nostra lettera è stata incriminata. Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei 31 ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale. Così diversi dai milioni di giovani che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione”. Don Milani passa poi a precisare il motivo profondo della risposta ai cappellani militari: “A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione). La tragedia del vostro mestiere di giudici è che sapete di dover giudicare con leggi che ancora non son tutte giuste. Son vivi in Italia dei magistrati che in passato han dovuto perfino sentenziare condanne a morte. Se tutti oggi inorridiamo a questo pensiero dobbiamo ringraziare quei maestri che ci aiutarono a progredire, insegnandoci a criticare la legge che allora vigeva. Ecco perchè, in un certo senso, la scuola è fuori del vostro ordinamento giuridico. Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall’altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre. E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i «segni dei tempi», indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso. Anche il maestro è dunque in qualche modo fuori del vostro ordinamento e pure al suo servizio. Se lo condannate attenterete al progresso legislativo”. Il ragionamento di don Milani non era tanto centrato sull’obiezione di coscienza ma sul diritto-dovere del cittadino ad obiettare alle leggi dello stato quando sono ingiuste, cioè quando sanciscono il diritto del più forte, e di opporsi agli ordini quando sono criminali: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole).
Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perchè siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l’ora, non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. È scuola per esempio la nostra lettera sul banco dell’imputato ed è scuola la testimonianza di quei 31 giovani che sono a Gaeta. Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l’anarchico. Preghiamo Dio che ci mandi molti giovani capaci di tanto”. Nel prosieguo della lettera, don Milani ricorda l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta degli altri popoli. Voi giuristi dite che le leggi si riferiscono solo al futuro, ma noi gente della strada diciamo che la parola ripudia è molto più ricca di significato, abbraccia il passato e il futuro.  È un invito a buttar tutto all’aria: all’aria buona. La storia come la insegnavano a noi e il concetto di obbedienza militare assoluta come la insegnano ancora. Mi scuserete se su questo punto mi devo dilungare, ma il Pubblico Ministero ha interpretato come apologia della disobbedienza una lettera che è una scorsa su cento anni di storia alla luce del verbo ripudia. È dalla premessa di come si giudicano quelle guerre che segue se si dovrà o no obbedire nelle guerre future. Quando andavamo a scuola noi i nostri maestri, Dio li perdoni, ci avevano così bassamente ingannati. Alcuni poverini ci credevano davvero: ci ingannavano perché erano a loro volta ingannati. Altri sapevano di ingannarci, ma avevano paura. I più erano forse solo dei superficiali. A sentir loro tutte le guerre erano per la Patria”. Poche volte, nelle guerre, gli eserciti nazionali hanno rappresentato la Patria in armi: “Del resto in quante guerre della storia gli eserciti han rappresentato la Patria? Forse quello che difese la Francia durante la Rivoluzione. Ma non certo quello di Napoleone in Russia. Forse l’esercito inglese dopo Dunkerque. Ma non certo l’esercito inglese a Suez. Forse l’esercito russo a Stalingrado. Ma non certo l’esercito russo in Polonia. Forse l’esercito italiano al Piave. Ma non certo l’esercito italiano il 24 Maggio… Quando scrivevamo la lettera incriminata abbiamo visto che i nostri paletti di confine sono stati sempre in viaggio. E ciò che seguita a cambiar di posto secondo il capriccio delle fortune militari non può essere dogma di fede né civile né religiosa”. Don Milani non può non ricordare l’inganno perpetrato dai propri maestri al tempo della guerra in Etiopia: “Ci presentavano l’Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri s’erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla. Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non so, preparava gli orrori di tre anni dopo.
Preparava milioni di soldati obbedienti. Obbedienti agli ordini di Mussolini. Anzi, per essere più precisi, obbedienti agli ordini di Hitler. Cinquanta milioni di morti. E dopo esser stato così volgarmente mistificato dai miei maestri quando avevo 13 anni, ora che sono maestro io e ho davanti questi figlioli di 13 anni che amo, vorreste che non sentissi l’obbligo non solo morale (come dicevo nella prima parte di questa lettera), ma anche civico di demistificare tutto, compresa l’obbedienza militare come ce la insegnavano allora? Perseguite i maestri che dicono ancora le bugie di allora, quelli che da allora a oggi non hanno più studiato né pensato, non me…
“… A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C’è un modo solo per uscire da questo macabro giro di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo patto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico” (Don Milani, Lettera ai giudici).
Don Milani passa poi a parlare perché ha ritenuto scrivere la lettera come sacerdote: “Veniamo alla dottrina. La dottrina del primato della legge di Dio sulla legge degli uomini è condivisa, anzi glorificata, da tutta la Chiesa. Non andrò a cercare teologi moderni e difficili per dimostrarlo. Si può domandarlo a un bambino che si prepara alla Prima Comunione: «Se il padre o la madre comanda una cosa cattiva bisogna obbedirlo? I martiri disobbedirono alle leggi dello Stato. Fecero bene o male?» C’è chi cita a sproposito il detto di S. Pietro: «Obbedite ai vostri superiori anche se son cattivi». Infatti. Non ha nessuna importanza se chi comanda è personalmente buono o cattivo. Delle sue azioni risponderà lui davanti a Dio. Ha pero importanza se ci comanda cose buone o cattive perché delle nostre azioni risponderemo noi davanti a Dio.
Tant’è vero che Pietro scriveva quelle sagge raccomandazioni all’obbedienza dal carcere dove era chiuso per aver solennemente disobbedito. Il Concilio di Trento è esplicito su questo punto (Catechismo III parte, IV precetto, 16° paragrafo): «Se le autorità politiche comanderanno qualcosa di iniquo non sono assolutamente da ascoltare. Nello spiegare questa cosa al popolo il parroco faccia notare che premio grande e proporzionato è riservato in cielo a coloro che obbediscono a questo precetto divino» cioè di disobbedire allo Stato! Certi cattolici di estrema destra (forse gli stessi che mi hanno denunciato) ammirano la Mostra della Chiesa del Silenzio. Quella mostra è l’esaltazione di cittadini che per motivo di coscienza si ribellano allo Stato. Allora anche i miei superficialissimi accusatori la pensano come me. Hanno il solo difetto di ricordarsi di quella legge eterna quando lo Stato è comunista e le vittime son cattoliche e di dimenticarla nei casi (come in Spagna) dove lo Stato si dichiara cattolico e le vittime sono comuniste. Son cose penose, ma le ho ricordate per mostrarvi che su questo punto l’arco dei cattolici che la pensano come me è completo.
Tutti sanno che la Chiesa onora i suoi martiri. Poco lontano dal vostro Tribunale essa ha eretto una basilica per onorare l’umile pescatore che ha pagato con la vita il contrasto fra la sua coscienza e l’ordinamento vigente. S. Pietro era un «cattivo cittadino».
I vostri predecessori del Tribunale di Roma non ebbero tutti i torti a condannarlo.
Eppure essi non erano intolleranti verso le religioni. Avevano costruito a Roma i templi di tutti gli dei e avevano cura di offrir sacrifici ad ogni altare. In una sola religione il loro profondo senso del diritto ravvisò un pericolo mortale per le loro istituzioni. Quella il cui primo comandamento dice: «Io sono un Dio geloso. Non avere altro Dio fuori che me». A quei tempi pareva dunque inevitabile che i buoni ebrei e i buoni cristiani paressero cattivi cittadini. Poi le leggi dello Stato progredirono. Lasciatemi dire, con buona pace dei laicisti, che esse vennero man mano avvicinandosi alla legge di Dio. Così va diventando ogni giorno più facile per noi esser riconosciuti buoni cittadini. Ma è per coincidenza e non per sua natura che questo avviene. Non meravigliatevi dunque se ancora non possiamo obbedire tutte le leggi degli uomini. Miglioriamole ancora e un giorno le obbediremo tutte. Vi ho detto che come maestro civile sto dando una mano anch’io a migliorarle. Perché io ho fiducia nelle leggi degli uomini. Nel breve corso della mia vita mi pare che abbiano progredito a vista d’occhio.
Condannano oggi tante cose cattive che ieri sancivano. Oggi condannano la pena di morte, l’assolutismo, la monarchia, la censura, le colonie, il razzismo, l’inferiorità della donna, la prostituzione, il lavoro dei ragazzi. Onorano lo sciopero, i sindacati, i partiti. Tutto questo è un irreversibile avvicinarsi alla legge di Dio. Già oggi la coincidenza è cosi grande che normalmente un buon cristiano può passare anche l’intera vita senza mai essere costretto dalla coscienza a violare una legge dello Stato…Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l’idea di andare a fare l’eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora.
Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura. Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d’ogni religione e d’ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l’umanità.  Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima” (Lettera ai giudici).
La prima udienza del processo si tenne il 30 ottobre 1965, rimandato poi al 14 dicembre dello stesso anno. Anche in questa data non si fece nulla. Finalmente si arrivò al 15 febbraio 1966. L’avvocato Adolfo Gatti, difensore d’ufficio di don Milani, concludendo la propria arringa a difesa del proprio assistito, disse ai giudici: “Qui, signori giudici, occorre un colpo d’ala”. E il colpo d’ala ci fu: “L’imputato don Lorenzo Milani è assolto perché il fatto non costituisce reato”, sentenziò la corte.
Fu un tripudio. L’avvocato Adolfo Gatti si mise a danzare come un ragazzino.
L’amico giornalista Mario Cartoni comunicò la sentenza a don Milani che ripose sorridendo al telefono, sentendosi quasi mortificato. Ma un anno e mezzo dopo, il 28 ottobre 1967, un’altra aula di tribunale condannò in appello il priore di Barbiana. Don Milani fu costretto a scrivere di nuovo al giudice per giustificare la sua assenza. Questa volta però scrisse una lettera di poche righe: “Caro presidente, io ho la bua. Tanta bua. Che sei bischero a farmi venire a Roma? Se mi vuoi vedere, vieni te. Un bacio anche a tua moglie”.
Righe ironiche, proprie di chi con l’anima è già di là dove si osservano le vicende terrene con gli occhi ingenui e distaccati di un bambino per cui il cancro diventa bua e al giudice si può affettuosamente dare anche del bischero. La lettera portava la data del 1 dicembre 1966. Non servì perché il priore morì quattro mesi e due giorni prima del processo, il 26 giugno 1967.
La condanna non poté pertanto essere applicata. “Il reato è estinto per la morte del reo”, scrissero i giudici. La strada per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza fu ancora lunga.
La legge fu approvata soltanto nel 1872, e i tanti giovani che, a partire da quella data, ne hanno usufruito, avranno provato un sentimento di profonda gratitudine nei confronti del reo don Lorenzo Milani (Mario Lancisi, Don Milani, la vita, pag. 151, Milano PIEMME, maggio 2013). •

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