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Bestemmie infinite

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Mi facevano paura, le bestemmie. Inorridivo, quando da bambino sentivo qualcuno bestemmiare. Nel mio paese, ricordo un cartello arrugginito dove si leggeva: “La persona educata non bestemmia e non sputa per terra”. Ma, come tutti i cartelli e i segnali, sono fatti per non essere rispettati. In quasi tutte le case c’era qualcuno che, arrabbiandosi, condiva la cena con folcloristiche bestemmie. Ogni occasione, il più piccolo incidente, un minimo contrattempo poteva scatenare l’oscena invettiva, gli aspri suoni prolungati per accentuare il patos, il pronto gesticolare che viene in aiuto per meglio sottolineare la rabbia. Tutto però dipendeva dalle personali abitudini dell’interessato e dalla comitiva che in quel momento fungeva da cornice. Dove non sussistevano freni inibitori (ricordo, ad esempio, al bar dove si giocava a carte dentro una nube di fumo) non era raro ascoltare cori a più voci che si rincorrevano nella ricerca della bestemmia. Erano tutti maschi, quelli seduti al bar dalla bestemmia facile. Persone buone. Non avevano alcun intento blasfemo. La “bestemmia da compagnia” era spesso utilizzata per cercare l’approvazione e la compartecipazione degli astanti alla propria “disgrazia”. Si bestemmiava dio e la madonna senza volerli offendere. Infatti poi erano presenti alla Messa domenicale o alla funzione vespertina, magari appartenevano a qualche Confraternita.
La bestemmia veniva appresa, sin da bambino, nell’ambiente familiare. Spesso per dare più valore alle parole qualche padre rimproverando il figlio diceva: “Non mi far bestemmiare, figlio!”. Era una maniera per mettere paura. Per dare più enfasi al discorso.
Contrariamente a quanto avveniva con le parolacce, nonni e genitori erano i principali insegnanti di queste significative espressioni. I bambini imparavano sin da subito che indirizzare la propria rabbia contro un dio è un ottimo modo per sfogare le sensazioni negative, senza litigare con amici e parenti.
Non credo che qualcuno di quelli che bestemmiavano avesse una qualche concezione di Dio. Era un concetto vuoto che però rappresentava fumosamente la “massima autorità”. Era un qualcuno al quale tutte le colpe potevano essere imputate e sul quale, quindi, tutte le imprecazioni e le lamentele potevano ricadere al momento opportuno.
La bestemmia era quindi una valvola di sfogo. Nulla a che vedere con la religione.
I bambini, però, ascoltando ripetutamente frasi di disprezzo o di condanna nei confronti della divinità, volevano sentirsi grandi ed entravano così nel mondo dei grandi rivolgendo anche loro sfoghi “al Cielo”. Con questo gesto potevano gridare agli dei: “Io esisto!!” Dio veniva così considerato come un benevolo tiranno.
La bestemmia, per loro, come ha affermato il Cardinale Gianfranco Ravasi, poteva considerarsi anche una forma di preghiera: “Anche la bestemmia, come conferma il libro di Giobbe, è una forma di preghiera. Esprime un’istanza metafisica, tipica della preghiera degli atei, nel limite e nella solitudine: è una forma di superamento del limite imposta dall’impotenza che l’uomo avverte per sé”.
Papa Francesco però ha suggerito che bestemmia non è solo la parola, ma anche i fatti contro la vita.
«La corruzione – ha detto Papa Francesco in un’omelia a Santa Marta commentando un brano dell’Apocalisse sulla “caduta di Babilonia” – è il modo di vivere nella bestemmia, è una forma di bestemmia. Il linguaggio di questa Babilonia, di questa mondanità, bestemmia: non c’è Dio, ma c’è il Dio denaro, il Dio benessere, il Dio sfruttamento». Di fronte a queste bestemmie, le parole che io sentivo da bambino erano davvero quisquilie. •

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Direttore de La Voce delle Marche

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