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Stranieri residenti

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Riflessione di una nota filosofa italiana sull’immigrazione

Donatella Di Cesare, docente di Filosofia Teoretica alla Sapienza di Roma, e di Ermeneutica filosofica alla Normale di Pisa, ha di recente pubblicato Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione. Il libro riflette da un punto di vista filosofico su quello che l’autrice identifica come uno dei problemi più rilevanti del nostro tempo, che è dato dalla migrazione di masse sempre più rilevanti di persone dalle zone più povere e martoriate del mondo. L’autrice ritiene che per affrontare tale problematica non basta l’appello all’etica, quella della prossimità, teorizzata da Lévinas, centrata sul primato dell’altro, in particolare l’altro più bisognoso e indifeso, come quella ispirata al cosmopolitismo etico di Kant, che fa della ricerca e del mantenimento della pace l’elemento di spinta per la creazione di un ordine mondiale non dominato dalla guerra.
La Di Cesare ritiene infatti che il problema dell’immigrazione vada affrontato da un punto di vista politico. Il che comporta il superamento di quella “xenofobia di Stato” che ha la sua radice in una visione della cittadinanza fondata su una visione dell’abitare inteso come “stabilirsi, installarsi, fare corpo con la terra”, e sull’esclusivismo dell’identità nazionale e dell’appartenenza etnica. Su questa visione proprietaria della terra e sul privilegio assegnato alla nascita e all’identità nazionale si fondano le varie forme di “sovranismo”, che vanno dalle versioni democratiche teorizzate da intellettuali come Walzer e Carens, a quelle improntate al criptorazzismo e a forme di hitlerismo soft, che sono il riferimento ideologico di diversi partiti e movimenti politici, e di una parte crescente dell’opinione pubblica. Sulla scia di Hannah Arendt, che per prima ha riflettuto filosoficamente sulla condizione del profugo, e del riferimento ad un’originale interpretazione di categorie heideggeriane come “essere nel mondo” e “abitare”, la Di Cesare apre lo scenario di “nuove forme di cittadinanza sganciate dalla filiazione e dalla nascita”, come pure dal “mito tossico della nazione”. Nel delineare un modo di abitare il mondo che possa fungere da presupposto di nuove forme di cittadinanza, la filosofa romana, oltre alla Arendt e ad Heidegger, fa riferimento alla figura biblica del gher, dello straniero residente, in cui riconosce la presenza di una tipologia di cittadinanza diversa da quella normata dal “mito dell’autoctonia” egemone nella cultura dell’antica Atene, come pure dalla “cittadinanza imperiale” tipica dell’ordinamento politico romano. La presenza, nella “città biblica”, del gher, dello straniero residente, testimonia la possibilità di “un altro abitare”, che non è “possesso e appropriazione, non è il fare corpo con il suolo”, ma si manifesta come condizione in cui “lo straniero è pur sempre un abitante”, e l’abitante, a sua volta, “è pur sempre uno straniero”. Collocandosi in tale prospettiva risulta possibile pensare una forma di convivenza umana che si pone al di là del “regime immunitario”, fenomeno analizzato da due pensatori italiani, Esposito e Agamben, prodotto dalle comunità politiche strutturate sulla base dell’appartenenza nazionale, della nascita, della filiazione, del radicamento nel suolo patrio. Si apre così la possibilità di dar forma a un corpo politico in cui la preoccupazione ossessiva di preservare uno spazio “immune” da presenze aliene lascia la precedenza al “comune”, cioè a modi di convivenza e di coabitazione in cui nessuno avanza la pretesa di “stabilire con chi coabitare”. Riflettere sulla migrazione comporta dunque per la Di Cesare la necessità di “ripensare lo Stato” nell’orizzonte di una prospettiva che cessi di assegnare un valore sacrale alle frontiere, e sciolga a favore dei secondi il “dilemma filosofico” che vede opposta tra loro sovranità statale e diritti umani. Il compito della “filosofia della migrazione” di cui la filosofa romana delinea un primo abbozzo, è dato dal proposito di “decostruire l’ovvietà” di frasi come “aiutarli a casa loro”, e di far affiorare le metamorfosi dell’hitlerismo presenti nelle posizioni di chi pretende stabilire l’identità di coloro con cui coabitare. Il discorso della “filosofia della migrazione” fa quindi implodere il paradigma statuale costruito su una visione della Terra come proprietà collettiva di un popolo, e sull’appartenenza di una nazione. La sua domanda e le sue problematiche sorgono infatti “fuori dai confini, oltre il dominio della sovranità”. Si delinea in tal modo una forma di cittadinanza sganciata “dall’assegnazione della nascita, dalle leggi del sangue e del suolo”, che ha come proprio punto qualificante la condivisione di una cultura politica che che consente di coesistere “con tutti coloro che, più o meno estranei, più o meno eterogenei, sulla terra hanno uguali diritti”. Da questo discorso deriva il passaggio da “un’etica della prossimità” a una “politica della coabitazione”, passaggio con cui si intende fuoriuscire dall’“idea che l’ospitalità, oltre ad essere impossibile, sia circoscritta all’etica, anzi alla morale, che sia insomma un vezzo moralistico di quei bonisti che si crogiolano nell’uso edificante della parola altro” •

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