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I nomi legano le generazioni

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Moresco: il tricolore per ricordare i caduti della guerra

Testa mozza, Andrefacchie… due contrade di Moresco. La prima un tantino inquietante; la seconda dal nome poco comprensibile.
È giornata di sole. Scendo verso la Valdaso. Fermo l’auto accanto alla vecchia strada che porta ad Andrefacchie. Sicuramente la via era costeggiata di querce. Ne rimangono poche. Poche ma orgogliose. Più avanti il sentiero termina, giusto per scorgere una Moresco incantevole e poco o nulla fotografata.
Di fronte, ci sono Campofilone, Montefiore, Carassai. La nebbia s’è appena diradata. Persiste in basso. Colpi di doppietta nella campagna. Cacciatori in azione.
Nel mio Buon Giorno quotidiano su facebook ho riportato la frase di una canzone risentita di Giovanni Lindo Ferretti: «L’anno che viene è sterile, le sue stagioni vedove, i giorni, giorni orfani e le festività adunate idolatriche». Mesta, se finisse qui, senza prospettiva. Ma subito dopo il cantautore aggiunge: «L’anno che viene è fertile, le sue stagioni gravide, i suoi giorni fecondi e le festività celebrazioni solenni». Una speranza, ma non disarmata o inattiva. Un rilancio dell’io, invece, capace di co-creare.
Il luogo è giusto per riflettere. Alle dieci in punto suona la campana della torre di Moresco. Quasi un richiamo. Vado.
All’ingresso del paese sventola un tricolore. Sosto per guardarlo.
I colori sono vividi. La bandiera è nuova. La bandiera è un significante e un significato. Aborrisco le scuole, e sono diverse anche a Fermo, che la espongono sbrindellata. Insignificante. Occorrerebbe un gesto forte della Prefettura. Non è possibile, proprio ora che abbiamo bisogno di comunità unite, riconoscersi in qualcosa di sbiadito.
Il tricolore sventola dinanzi al monumento dei caduti delle guerre mondiali. Leggo i nomi e li appunto: Finocchietti, Amurri, Attorresi, Cesarini, Fregagioni, Giosué, Marconi, Marinangeli, Oresti, Properzi, Salvatori, Scotucci, Talamonti, e poi Ascani, Castelli, Massi, Alesiani.
Potevo citarne due e mettere un «eccetera». Li ho elencati tutti. Scrivere e pronunciare i nomi è come avere quella gente – molto spesso mandata a morire – ancora vicina a noi, tenerla in un file della memoria, non cancellarla, non darla vinta alla morte come buio definitivo.
Sul tavolo della mia scrivania ci sono due foto di amici scomparsi: una suora clarissa, amica di tanti anni fa, la ricordo entrare in convento a Pollenza vestita da sposa; e un uomo, di morte recente, con cui avevo camminato il lungomare di Grottammare solo poche settimane prima. Guardo spesso quei volti. A volte mi sorprendo a chiamarli sottovoce. I nomi sono importanti, dicevo. Mai dimenticarli. Sono la catena di generazioni che si legano. Che ci legano a questa vita e ce ne chiedono il senso.
Bandiera, monumento, caduti. Cento anni sono passati dal primo conflitto mondiale. Un amico generale dell’esercito ha riletto Caporetto (ne parlerò): non fu una disfatta, fu un tragico ripiegamento, per resistere sul Piave, con gesti d’eroismo di uomini qualunque.
Montegiorgio aveva gli Alberelli: un albero un caduto un nome. Ora è parcheggio…
I ragazzi del Classico di Fermo hanno ridato lustro al Parco della Rimembranza.
Così si fa! Così si riallaccia una storia di cui si è comunque figli. •

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