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“Ho perso le parole”. La fatica di trovare le parole giuste

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Confessione, penitenza, riconciliazione. Una scelta difficile

Il sacramento della confessione non se la passa gran che bene. E tante sono le persone che propongono analisi e anche delle soluzioni … In genere, si fa riferimento a tre ordini di problemi.
Prima di tutto, c’è una crisi della fede, che porta l’affievolimento del senso del peccato. È quasi ridotto ai minimi termini, il disagio per aver “rotto l’amicizia con Dio” attraverso un comportamento che si avverte sbagliato. Per questo, scompare in tanti la spinta interiore che porta a pentirsi e a chiedere perdono.
Poi c’è un progressivo processo di privatizzazione del rapporto con Dio, per cui molti, pur dicendosi credenti, sostengono di non aver bisogno della mediazione della Chiesa né tanto meno di un prete per accostarsi al Signore e chiedergli perdono. In poche parole, preferiscono fare i conti direttamente con Dio e vedono nella confessione l’espressione di una Chiesa impicciona e, in qualche caso, anche inquisitrice.
Infine, c’è il problema che riguarda proprio la figura del prete e il suo rapporto con la confessione e il confessionale. Ci sono infatti persone, e non sono poche, che dicono di aver provato il desiderio di accostarsi al sacramento della confessione e di essere entrate in una chiesa con la determinazione di chiedere perdono, ma di aver trovato il confessionale vuoto e non essere riuscite a trovare un prete nelle vicinanze. E altre sostengono di aver smesso dopo una confessione che è stata scioccante perché il prete aveva fatto delle domande troppo personali, o era risultato troppo duro o, i casi sono molto minori, troppo lassista o insensibile o incapace di ascoltare con attenzione.
Mi permetterei però di suggerirne un altro motivo. È il sacramento in cui siamo costretti a coinvolgere una parte di se stessi. E il parlare di sé con verità e amore, è ciò che risulta più difficoltoso. Quando si celebra un sacramento seguiamo delle formule e in genere si celebra comunitariamente: si sa cosa dire o cosa fare. Ma nella confessione esistono visibilmente il penitente e il confessore. Il penitente deve parlare di sé, entrare nell’intimo e trovare le parole giuste, che ne esprimano la situazione, con pentimento e dolore per i peccati. Il confessore è chiamato a facilitare l’incontro con il mistero dell’amore di Dio, di Dio Padre, di Dio Figlio e di Dio Spirito Santo; a far percepire in modo concreto l’amore misericordioso del Padre, l’efficacia della redenzione del Figlio e il rinnovamento risanante, opera dello Spirito Santo.
Nella parabola del figlio prodigo (cf. Lc 15, 11-32), o del padre misericordioso (come la definì Giovanni Paolo II), o dei due figli (come la chiamò Benedetto XVI), il figlio minore che si era dilapidata l’eredità che aveva preteso dal padre, mentre pascolava i porci “ritornò in sé” (v. 11), perché cominciò a trovarsi nel bisogno. Gli mancava qualcosa, e questo gli aveva suscitato delle domande. Cosa gli mancava? Certo, il patrimonio speso con le prostitute (v. 30), il nutrimento necessario per vivere, … mancava anche qualcuno che gli desse da mangiare anche solo le carrube che mangiavano i porci: ma nessuno gli dava nulla” (v. 16). Comprende che non può vivere così, che quella non è vita! È così, ognuno ha bisogno dell’altro, e quando gli altri scompaiono dal nostro orizzonte si è desolati e non si vive. A partire dall’esperienza tremenda di essere divenuto come un animale di quelli di cui si prendeva cura, il figlio minore si rialza e si decide di tornare sui suoi passi. Non è un convertito, ma ha preso una decisione: basta con questo modo di vivere. La sua condizione gli fa sentire l’esigenza di “casa”. Pensa allora alle parole da dire al padre per convincerlo ad aprirgli la porta e si prepara a vivere come un servo, ma almeno lui è sazio… Ritorna, dunque, ripetendosi le parole da recitare al padre, per placare la sua delusione e la sua giusta ira. Ma non avrebbe mai immaginato, quello che poi accadde: il padre costrinse tutti a fare festa!
Oggi purtroppo, in molti non si riesce a “rientrare in se stessi”, pur sperimentando le conseguenze dannose delle scelte. Si fatica a fare spazio in noi stessi a una verifica reale della propria vita, a dare un nome al proprio disagio, a prepararsi le parole giuste da ripetere. Si potrebbe dire con le parole di una canzone di Ligabue: “Ho perso le parole”. E quando si perdono le parole la realtà non esiste.
Eppure, abbiamo un Padre che non desidera altro che fare festa, perché “questo figlio è tornato in vita … è stato ritrovato” (v. 24. 32). •

Emilio Rocchi

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