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Diventate s-pudorati. Non abbiate paura della vostra tenerezza

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Dopo aver ascoltato i tre interventi non si può ripartire da zero. “Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale. L’ascolto ci aiuta ad individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori” (Evangelii gaudium, 171). Il primo compito allora è ascoltare la vita, le situazioni, le persone; ascoltare gratuitamente senza dare una risposta; entrare in punta di piedi nella vita altrui.
L’annunzio del vangelo inizia dunque non con una parola ma con il silenzio.
Partire dall’ascolto vuol dire capire che l’evangelizzazione non è una catechesi. Comporta una catechesi, ma non è catechesi. È una relazione umana fondamentale.
Ringrazio il Signore per le tre esperienze che ho ascoltato.
La frase che hanno detto alla fine del primo intervento le riassume tutte: “Se cambi il modo di vedere le cose, le cose cambiano”. Ciò vale per le cose vissute a Corridonia; ciò vale per un oratorio in cui si entra spinti e si rimane contenti; ciò vale per lo sguardo che cambia la realtà di una situazione difficile che si vive all’interno del matrimonio.
Vorrei rimodulare il mio intervento raccontando anche qualcosa di familiare. L’evento doloroso che mi è accaduto la settimana scorsa è la morte di mia mamma. Aveva 90 anni vissuti con una bellezza, una semplicità, una umiltà e una capacità di vita straordinarie.
Quattro anni fa, quando morì mio padre, mia madre rimase sola, a 86 anni. Mio fratello abitava in Zambia. Io nelle Marche ero il più vicino, a 400 km di distanza. Ci sentivamo spesso al telefono. Un mese dopo la morte di mio padre, mia madre se ne esce con questa espressione: “Ma lo sai Gianni che papà non è morto”. Ho avuto un po’ di esitazione. Mia madre, da sensitiva qual era, ha capito il significato del mio silenzio e ha aggiunto con una rustica lucidità: “So che papà è morto e so che è nella tomba in cimitero. Ma ho pensato: ti pare che dopo 68 anni di vita matrimoniale, la morte ci può separare?”.
Sono rimasto di stucco e ho capito molto della loro unione e della loro fede. La loro unione andava oltre. Questo è il risultato di una visione. Quella capacità di vedere che cambia le cose.
È esattamente quello che capita al cieco di Marco raccontato al capitolo ottavo.
Gesù compie questo miracolo dopo le due moltiplicazioni dei pani. I discepoli dovevano capire che Gesù distribuiva la Parola di Dio e sfamava le moltitudine. Gesù era convinto che la Parola andasse proclamata prima di tutto alle pecore perdute del popolo d’israele. Sevivano predicazione e distribuzione del pane.
Dopo la prima moltiplicazione dei pani, rimangono 12 ceste di pane, proprio come le 12 tribù di Israele. Nella seconda moltiplicazione dei pani, le ceste che rimangono sono 7. Matematicamente sono di meno, ma simboilicamente sono di più. Sette infatti sono i popoli del mondo. La seconda volta rimangono più avanzi.
Ma cosa è successo tra la prima e la seconda moltiplicazione dei pani?
È successo una cosa importante: l’incontro con la donna siro-fenicia, la donna di Canaan. Aveva tutti i difetti possibili: donna, straniera, non giudea. Gli chiede la guarigione della figlia. Gesù le risponde: “Non è bene dare ai cani il pane dei figli”. È un insulto: “cani”. Ma la donna dice: “È vero, ma anche i cani mangiano le briciole che cadono dalla mensa del padrone”. Gesù capisce e dice: “Donna la tua fede è grande”. Dopo questo episodio avviene la seconda moltiplicazione dei pani con le 7 ceste. Cioè la Parola è per tutti. Il pane è per tutti, il sangue è per tutti.
La cecità di cui si parla dopo è quella cecità di non vedere che la Parola è per tutti.
Nel testo originale, il testo greco, nei versetti 23-25 si usa un verbo (blepo) coniugato con alcune particelle che danno un significato diverso al “vedere”.
1) Blepo cioè vedere.
2) Ana-blepo: alzare lo sguardo.
3) Dia-blepo: guardare attraverso.
4) En-blepo: guardo dentro.
Attenzione a questi passaggi: Vedo, vedo guardando verso l’alto, vedo attraverso, vedo dentro.
Nel vangelo di Marco c’è un testo in cui si racconta di un tale che chiede a Gesù cosa deve fare per avere la vita eterna. Gesù risponde di seguire i comandamenti. Quello risponde di averli sempre osservati. E poi Gesù gli dice: “Vai, vendi quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Nella traduzione della Cei si legge: “Gesù fissatolo lo amò”. Ora quel “fissatolo” in greco è en-blepo, guardo dentro. La traduzione giusta allora sarebbe: Gesù gli guardò dentro e lo amò.
È lo stesso verbo del cieco di Betsaida. En-blepo però arriva alla fine. Ci sono 4 passaggi.
1) Blepo. Il primo verbo è il costatare la propria cecità. Sai guardare la vita? Gesù chiede: cosa vedi? Il cieco risponde: “Confondo le cose. Vedo gli uomini come alberi che camminano”. Non si parla solo del cieco di Betsaida. Di fronte alla realtà, siamo moltissimi a confondere le cose. Tocchiamo le cose della vita e le scambiamo per qualcos’altro e le leggiamo in maniera distorta. C’è una forma di visione adulterata. È una visione non visione. È uno scambio di realtà. Nel vivere da discepoli, nel nostro essere operatori pastorali, nel vivere la chiesa ci può capitare di pensare di vedere una cosa invece ne vediamo un’altra. Gran parte di umanità vive l’esperienza di Chiesa con sentimenti di stanchezza, di disillusione, di fastidio, a volte di rancore e di rabbia. Forse perché sono stati toccati e scambiati per alberi. Dovremmo stare attenti a non scambiare per alberi le persone. Ecco perché è importante incontrarsi, conoscersi, conoscere le esperienze dell’altro, raccontarsi… senza esprimere alcun giudizio.
Solo allora si comincia a intravvedere qualcosa.
2) Solo se si alza lo sguardo.
Ecco il secondo verbo: Ana-blepo, guardare alto, oltre la prima visione. Quando ascoltiamo i racconti degli altri, la frase più giusta che possiamo dire è: “Che ne so…”. Nessuno vuol essere interpretato o categorizzato, ma vuole essere ascoltato. Non vogliamo che qualcuno ci dica qualcosa se prima non si è creata una relazione profonda. Ecco cosa vuol dire ana-blepo: cominciare a capire che gli alberi che camminano, forse, possono essere uomini e devono essere visti in maniera diversa. Un incontro, un’assemblea, una amicizia è per guardare in alto non il nostro ombelico.
Non basta semplicemente guardare in alto, e attendere. Occorre andare verso. Bisogna entrare in relazione. Bisogna capire che la vita è maestra. Qualsiasi vita è maestra. Allora ogni vita è una pedagogia. Tutte le persone che Gesù ha incontrato, le ha incontrate in forma pedagogica. Le ha incontrate e ha imparato. Ha imparato dalla fede della cananea, dalla samaritana, dalla peccatrice, da Pietro, dalla passione distorta di Giuda, dalla durezza dei farisei, dall’entusiasmo dei poveri. E poi è diventato più uomo. Quando lo è diventato fino in fondo ha offerto tutta la sua vita come sogno di Dio. Così Dio vuole l’uomo. Così Gesù ha attraversato il confine del vedere e ha visto attraverso: dia-blepo.
3) In Lc 7 si racconta l’episodio della peccatrice. Entra nella casa di Simone il fariseo. Bagna i piedi di Gesù con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli. Se noi vediamo uomini come alberi che camminano che cosa vediamo in quel testo, come lo leggiamo? Sempre e solo in senso miracolistico e morale. Quel testo dice di più. Il capitolo 7 di Luca è un capitolo importante: c’è la fede del centurione, della vedova di Nain, di Giovanni Battista, della peccatrice. Se leggiamo attraverso dovremmo vederci l’eros che salva. È un testo che racconta qualcosa di più della morale.
Nella vita occorre dunque alzare lo sguardo e andare oltre l’ostacolo. Come Leopardi, guardare oltre la siepe e scorgervi l’infinito. Occorre fare anche un’altra cosa: coinvolgersi. Vuol dire entrare nella vita degli altri.
4) En-blepo. Per entrare nella vita dell’altro occorre muoversi. Se si entra nella vita degli altri non si giudica più perché si entra anche nella propria vita. Giudicare se stessi non è sempre facile o piacevole.
Questo è l’invito di Gesù: approssimarsi all’altro tanto da entrare nella sua vita. Comprendere sino in fondo l’altro perchè si entra nei suoi sogni, nelle sue passioni, nelle sue fragilità, nelle sue incertezze… Se questo fosse il nostro vedere, ci dovremmo fare altre domande. Invece ci facciamo domande sulla depressione di una chiesa che muore dimenticando che la Chiesa non muore perché Gesù lo ha detto: “Le forze degli inferi non prevarranno su di essa”. Il popolo che cammina nella storia è in mano a Dio.
I discepoli prendono il cieco e lo portano da Gesù e dicono a Gesù: “Toccalo”. Vogliono che Gesù entri in lui, che diventi uno con lui. Che tocchi la sua vita. La nostra liturgia spesso non tocca i nostri sensi, il nostro itnelletto. Quanto è bello stringere una mano, sentire il flusso che passa. Occorre mettersi in ginocchio e pregare perché il Signore ci dia la grazia di toccare gli altri, e accarezzare la vita che ci sta vicino.
Accarezzare noi stessi prima (ama gli altri come te stesso) e poi gli altri. Abbiamo pudore e perciò non accarezziamo più né noi stessi, né gli altri.
Per guardare, guardare verso l’alto, guardare attraverso, guardare dentro bisogna diventare spudorati, senza pudore. Gesù accompagna il cieco a fare questo percorso. Bisogna viverlo come un tesoro. Alla fine del testo Gesù dice: “Non entrare neppure nel villaggio”.
Ci sono esperienze della vita che dobbiamo trattenere e far sedimentare in modo che diventino memoria viva della nostra carne spirituale. Devono diventare memoriale. Questa memoria per il monaco è la cella. Non è una prigione. La cella è il luogo dove non si entra nel villaggio ma si fa memoriale. È necessario un tempo per fare memoriale della bellezza incontrata.
Una pastorale deve essere attenta a questi passaggi: uno sguardo ancora povero, uno sguardo iniziale, uno sguardo coraggioso che si muove verso l’orizzonte e uno sguardo che si posa e rimane.
Gesù ha fatto: en-blepo, ha guardato dentro. La croce è il guardare dentro di Gesù. Poi non è entrato nel villaggio, ma nel sepolcro. E quando ha fatto memoriale ne è uscito risorto. Ha potuto far vedere quanto ha visto.
Il vedere progressivo nella nostra vita ci permette di uscire e di raccontare quanto abbiamo visto. Allora la nostra credibilità diventa anche la nostra speranza. •

Don Gianni Giacomelli (testo non rivisto dall’autore)

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