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Sognando Salomone

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copertina-13La pretesa degli uomini dell’età corrente è una pretesa che forse non si è mai verificata nella storia, ed è quella che ogni agire e ogni interpretazione dell’agire debbano fondarsi su un equivoco: il movente della prassi e dell’intenzione sia un movente negativo, ma da esso ci si aspetti un risultato positivo. Senza alcuna guida, e pretendendo un’autonomia assurda. Sia sufficiente considerare l’economia, a non dir altro.

Il profitto è la sola anima del mercato, anzi sua sola spettanza e aspettativa, con abbattimento selvaggio di ogni vera potenzialità creativa, lavorativa e di serio e comunitario interscambio di beni e di idee. Invece che strumento anche per usare, certo, ma soprattutto per vivere dignitosamente e senza emarginazione, il consumo, fattosi fine a se stesso, sempre più vorace, appetitoso e insoddisfacente, ha desolato la terra (con un’espressione che ricorda Eliot), l’ha resa deserta, ammantata di fumi e di scarti.

Alla fine, la barca, come quella di Coleridge in mezzo all’oceano, non ha più propulsione e affonda per inedia di alimenti e di venti propizi. Senza bussola, senza stelle, senza oriente. In quest’età dissennata, sconsiderata e spensierata (cioè senza più pensiero), si sta dissolvendo l’informazione come capacità di dare forma, trasformata in pubblicità seducente e vacua; la politica stessa è diventata pubblicità in vista di successi non più di parte ma personali. Si sta dissolvendo, nel vortice dell’indistinto e del caos, anche il terreno della cultura come capacità di elaborare comprensioni, quand’anche sofferte, della vita e del mondo.

La ragnatela (il web) è diventato il nostro mondo quotidiano che disorganizza e diabolizza (greco dia-ballo, sconnetto, disunisco) la mente e lo stesso cervello, non dando loro il tempo di riposare e di elaborare (è fisiologia), perseguitandoci di notte e di giorno, nel lavoro, nella ricerca e nello svago, con pochi che sanno resistere alle attrattive di Aracne, utilizzandone le trame a proprio vantaggio. I più si perdono, perdono tempo e vita, rinunciando a ogni seria costruzione, tra fili e nodi, in cui qualcosa di buono è disseminato tra i grovigli della perversione, quali isole tra i marosi che tramano sempre di sommergerle. Aracne, nella mitologia, come si sa, era il ragno, che aveva sfidato, nella tessitura, una dea, ed era finita, impotente e vorace (“O folle Aragne, sì vedea io te / già mezza ragna, trista in su li stracci / de l’opera che mal per te si fé.” Dante, Purg., XII, vv 43-45).

Ben diversa Melissa, la saggia ape che di fiore in fiore va cercando il nettare a primavera, nella calda e fulgida luce del giorno, non distrugge, anzi feconda, unisce, simbolizza (syn-ballo, unisco) quello che trova verso le dolcezze e le opime ricchezze del miele. La fretta ci opprime e ci fa perdere tutto il tempo, perché non ha una direzione e uno scopo; e se ce l’ha, è quello dell’auto-affaticamento, dello stress, dello snervamento. Invece “Maria corse con fretta a la montagna” (Dante, Purg., XVIII, v. 100).

Perché aveva uno scopo, e che scopo! L’istruzione non lega più maestro e discepolo in un unico destino, trasmettendo (tradizione, tradere, affidare) sapere e saggezza, dirozzando, digrossando ed evidenziando l’immagine che il discepolo si porta dentro. Sta diventando, invece, sempre più un tradimento (ambiguità semantica del termine tradere), perché gli scopi non ci sono più; la si vuole asservita al mercato, in modo che nessuno più alzi saggiamente la testa fuori dalla rete del ragno. Ormai non è più la scuola al servizio dei ragazzi, ma sono i ragazzi al servizio dell’apparato scolastico, e anche gli insegnanti sono asserviti a un’entità astratta e infertile che formatta tutto senza formare niente. Imperversano i quiz, le ore distribuite in modo assurdo, i libri elettronici, senza più la laboriosa carta che può farsi compagna amica dei giorni e degli anni.

L’assistenza sanitaria, sconvolta dal buco nero della spesa, e rivolta sempre più contro se stessa, non più diretta da una saggia stella, ha ormai smarrito e disperso il suo punto di applicazione, il bene umanamente possibile della persona. Imperversano idee pazzesche, e a ruota libera, senza più un katéchon (colui che trattiene) che le trattenga: con la scusa del diritto di parola e di espressione, si propongono dissennatamente tutte le opinioni possibili, tanto più appetite da conduttori di talk show, e da ascoltatori, quanto più sono stravaganti e dirompenti.

E così dicasi di spettacoli e di intrattenimenti. E così di fction di prima serata che, salvo rari casi che vengono subito sotterrati dal brago del porcame televisivo, ammanniscono inutile e stupido sesso, dannoso al senso degli stessi filmati, ma assai efficace nel far fallire ogni saggio progetto di legame affettivo, costruttivo e duraturo. E poi ci si lamenta che la gente, smarrita ogni traccia di valori consistenti e stabili, si volga a comportamenti sempre più disgreganti e anche delittuosi e selvaggi; non di rado senza motivazione, ma come per il compiersi passivo di un destino che ha sopraffatto la ragione, sottomettendola a qualsiasi impulso, tanto ogni cosa va bene.

Senza alcun’altra saggezza, il patto sociale non regge più, perché non può che basarsi sulla legge del più forte; e “lo mondo è ben così tutto diserto / d’ogne virtute, come tu mi sone, / e di malizia gravido e coverto” (Dante, Purg., XVI, vv 58-60). Questi versi di Dante ci ammoniscono che, nonostante i desideri dei miti e dei poeti, non è esistita un’età dell’oro, come ci narra Ovidio (Metamorfosi, libro I); un’età allorché, è sempre Dante che narra, “lo secol primo, quant’oro fu bello, fé savorose con fame le ghiande, / e nettare con sete ogne ruscello” (Purg. XXII, vv 148-150).

Epperò oggi viviamo una tragedia aggiuntiva: se prima il mal essere, il mal pensare, il mal operare si proiettavano su uno sfondo sanzionante, su un credo condiviso, anche se non praticato, su una fiducia riposta, anche se non sempre soddisfatta, attualmente il mal operare, il mal pensare, il mal essere non si confrontano più con alcunché che li sanzioni o li critichi o li trattenga, se non quel leggerissimo abito di consuetudini che ancora resistono o di regole sociali che si avviano alla definitiva dissolvenza. Disperazione? No, v’è solo un compito più impegnativo per la nostra saggezza, se ancora un barlume ne possediamo, o se vogliamo ricostruirla e ricostituirla.

E qui veniamo proprio a questa parola che già di proposito abbiamo citato senza connotarla. Per differenza ci è più facile intendere chi sia il saggio, quale sia la sua anima. È colui che contesta, che mette in crisi, continuamente, tenacemente, pacificamente ma anche con determinazione, tutto ciò che lo circonda, e di cui abbiamo dato qualche assaggio. Ma non solo, perché il saggio mette in crisi sempre anzitutto se stesso, e non potrebbe mettere in crisi nulla di ciò che invade il mondo, se non mettesse prima in crisi la sua vita: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita” (Dante, Inf, I, vv 1-3).

In mezzo alla marea di gente dispersa, non solo smarrita ma forse persa, perché continuamente sottomette la ragione, l’intelligenza, la volontà, il desiderio, la libertà, al primo impulso che tira verso il basso (dantescamente è il talento sfrenato che conduce alla perdizione) e al primo vento, il saggio è colui che capovolge il ruolo e il senso delle cose, sottomettendo l’impulso alla libertà, la dissennatezza alla ragione, la dissolutezza alla volontà, la stupidità all’intelligenza.

La sua conversione arriva a coinvolgere tutto il proprio essere, fino al cuore di tutto se stesso; e se vi trova il principe del male, nascosto in recessi di ghiaccio, lo abbandona, ruotando le sue intenzioni di centoottanta gradi, e risalendo verso la purificazione. Tra il pessimismo e la fiducia sul senso ultimo del mondo, il saggio scommette sulla fiducia, anche a differenza di tanti saggi antichi, scoraggiati, che cercavano, sfiduciati, il minor male. Ama conoscere se stesso (gnothi sautòn), ma sa di non sapere. E si affida. Si affida, anche nel travaglio e nelle contraddizioni, a colui che ha fatto il mondo, e pensa e agisce di conseguenza. E se non arriva alla fede, agisce e pensa “etsi Deus daretur” (come se Dio ci fosse), perché non trova altra via di vera salvaguardia per il pensare e l’agire. Il saggio non va alla cerca dell’autonomia, illusoria, o dell’indipendenza, fallace. Il saggio è colui che cerca la migliore dipendenza e la buona eteronomia, con lo sguardo rivolto verso l’alto. Il saggio è colui non che cerca solo compagni di cordata; ma soprattutto guide e maestri, e sempre migliori di lui. •

Giovanni Zamponi

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