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Il piacere di credere

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copertina-16È la nostra differenza esistenziale: una scissura che ci portiamo dentro, la sensazione di un più e di un meno, come di un cavallo che tiri verso l’alto e di uno che trascini in basso (Platone). È destino dell’uomo, e questo destino lo colloca ‘diversa-mente’ rispetto agli ‘altri’ animali; e se per questi possiamo ragionevolmente ritenere che non vi siano altre motivazioni per l’azione, se non quelle di soddisfare bisogni, di evitare sofferenze, di godere degli istinti, per l’uomo dobbiamo sempre fare i conti con quella differenza.

E quella scissione l’uomo è destinato a drammatizzarla e viverla, ‘simbolica-mente’ ricomponendola, o ‘diabolica-mente’ lacerandola. È il dramma che non si può dissolvere senza la dissoluzione di noi stessi. Siamo chiamati a ‘risolverlo’ risolvendo le relazioni verso un più che non ha confini.

Lo stupro, ‘anatomicamente e fisiologicamente’, non si distingue molto da quello che può essere il più esaltante e amorosissimo amplesso. Non è misteriosamente interrogante questa totale ambivalenza dell’energia insita nella relazione che rende il sesso una dimensione quasi divinamente propulsiva – e l’amore più alto anche un incendio passionale che può far ardere di donazione tutta la persona –, ma, al tempo stesso, l’occasione di possibili abiezioni senza limiti, incluse le violenze più tragiche e turpi? Che dire dunque del piacere? È qualcosa che allude sempre a una caduta, o possiede ali e muscoli per garantire la salita?

Il piacere è stato demonizzato in troppi passati (e presenti) vezzi gnostici o da più o meno sinceri aneliti di purificazione spirituale, di mortificazione, di rinuncia, estrapolati però sovente dal loro eventuale ruolo, e dunque essenzialmente ‘dia-bolizzanti’ il senso del piacere stesso nella spinta dell’esistenza verso la sua realizzazione. Vero è, per contro, che il piacere è stato idolatrato, in passato, e soprattutto oggidì, forse anche in relazione ai troppi pregressi divieti, come un dio a cui sacrificare tutto, anche la gioia, la felicità, la beatitudine. E questo è un dramma, anzi una vera tragedia.

È da questi due peccati contro il piacere che dobbiamo convertirci. Mi rendo conto di procedere per paradossi o forse per assurdo, e queste considerazioni possono sembrare bizzarre. Come si può parlare di un “peccato contro il piacere”, se il peccato è un modo d’essere del piacere? Ma, se ben si riflette, non è proprio così: i due peccati contro il piacere ci hanno diabolicamente sottratto una grande risorsa di energia vitale, psichica e anche spirituale, rendendo la via del bene talvolta ostica, ostile e inutilmente aspra, oppure inducendoci ad abbandonarla, con qualche remora prima, e senza freni da ultimo.

La seduzione esercitata dal piacere – e se deve essere forza che ‘convince’ e muove all’azione non può che esercitarsi che attraverso la seduzione – è ingannevole o schietta? Costruttiva o distruttiva? Qui sta il punto. “Esce di mano a lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia, / l’anima semplicetta che sa nulla, / salvo che, mossa da lieto fattore, / volontier torna a ciò che la trastulla. // Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s’inganna, e dietro ad esso corre”. Così Dante nel canto XVI del Purgatorio. Il piacere, ed è stupendo, si genera nell’anima perché è lieto il creatore. Dio è lieto, infinitamente beato, e s’offre e soffre anche, se il caso, per amore; e anche in tale sofferenza infinitamente si esercita la sua beatitudine.

Ci ha regalato il piacere, che è un barlume della sua felicità, anzitutto per accendere il motore d’avviamento, per aprire la strada, per iniziare il cammino, per costruire relazioni, per salire, di balza in balza, fino all’amore beato e beatificante, anche qui in terra, qui in vita. Il che non significa che non si troveranno momenti in cui occorrerà che con forza l’anima e il corpo s’offrano e soffrano, perché un amore sempre più grande lo richiederà, e lì sarà perfetta letizia, non faccia mortificata. “Quando digiuni, profumati e rendi lieto il tuo volto…”.

L’inganno in cui quasi sempre cadiamo non sta nell’orientamento del piacere e nel suo essere piacevole, ma risiede nella nostra incapacità di intravedere rive di felicità sempre crescente, e di remare verso di esse con audacia e costanza e speranza. Con volontà e voluttà, insomma, se è vero, a dir di certi linguisti che il termine greco “elpìs” o “(v)elpì(d)” – speranza – è una sorta di isostero linguistico del latino “voluptas”. Prendiamo il già citato piacere sessuale, forse quello in assoluto più appetibile ma anche più deperibile. L’auto-inganno nel quale precipitiamo è quello di reiterarne in continuazione, fino all’ossessione snervante, il momento carnale, di affaticarci nel suo superficiale diletto. Il piacere qui gira a vuoto, la sua energia si esaurisce, e allora la si ripristina, o si cerca vanamente di ripristinarla, con stratagemmi sempre più devastanti, in cupe forme di dipendenza e fosche sindromi d’astinenza che ne reclamano vieppiù un ritorno sempre più degenerato.

Ma se in quel piacere, che è invece generante, si generano relazioni nuove, a ogni tappa in cui ogni amante realizza se stesso nella persona amata, il piacere si trascende nella felicità e poi nella beatitudine, e poi di scala in scala, fino all’immensità di Dio, di quell’ “etterno piacere, al cui disio / ciascuna cosa qual ell’è diventa”. Fino alla completa realizzazione di quell’infinito cammino a ogni conquista del quale si può dire: “Sei tu che muti ogni attimo / in un pegno fiorito / d’altre felicità”.

Per piacere, dunque, non sprechiamo il piacere! Io non ho competenza di piani morali, ma credo che nello sperpero del piacere la cosa peggiore non sia l’infelicità di un’indebita intossicazione, ma lo sperpero, ben più costoso, di quell’immenso spazio di felicità e beatitudine che forse non potranno più essere recuperate e gustate. •

Giovanni Zamponi

 

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