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Questioni di fine vita: la biopolitica è qui

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numero 1Negli ultimi giorni l’istituzione di un Registro Comunale a Fermo che possa accogliere formalmente eventuali Dichiarazioni sulla pianificazione delle cure sanitarie definite, forse in modo precipitoso, come Testamento Biologico, sta animando la vita sociale, politica e culturale della nostra Città. Precisando che la nozione di Testamento Biologico era già stata considerata non adeguata dal Comitato Nazionale di Bioetica, oltre ad altre incoerenze e perplessità che lascio analizzare ai nostri bioeticisti, crediamo che sia doveroso, come Curia Diocesana offrire una chiara posizione della Chiesa con l’intento di esprimere un sereno e fecondo dialogo.

L’imperativo etico che anima la nostra coscienza cristiana è che ogni individuo umano debba essere trattato come persona e debba essere tutelato e rispettato dall’inizio alla fine della sua vita. La vita umana è sempre, in ogni caso, un bene inviolabile, indisponibile, e la sua dignità non viene meno quali che siano le contingenze o le infermità che possono colpire nel corso di un’esistenza.

Nel rispetto di questo imperativo etico, la Chiesa, non è in linea di principio contraria alle Dichiarazione Anticipate di Trattamento. Infatti, alcune Conferenze Episcopali hanno già istituto, da molti anni, alcuni modelli che offrono un senso cristiano alla morte, alla sofferenza e alle cure terapeutiche, come, ad esempio, la Decleration of life and death negli Stati Uniti, o il Testamento Vital in Spagna o la Christliche Patientenverfügung in Germania. Questi documenti ufficiali dei vari Episcopati trovano ispirazione nella “Dichiarazione sull’Eutanasia” della Congregazione per la Dottrina della Fede, la quale, precisando la necessaria distinzione tra terapie sanitarie proporzionate e sproporzionate, afferma che nell’imminenza di una morte inevitabile è lecito rinunciare a quelle terapie che possono configurarsi come sproporzionate, che procurano, cioè, un prolungamento precario, oneroso e penoso della vita definito come “accanimento terapeutico”.

Il medesimo documento, inoltre, afferma che non è lecito interrompere le cure normali e proporzionate dovute all’ammalato, come, ad esempio, i trattamenti dell’idratazione e dell’alimentazione. In tal senso, terapie come la dialisi, la trasfusione di sangue, gli interventi di chirurgia d’urgenza e la somministrazione di antibiotici, non possono essere oggetto di decisione nelle Dichiarazioni o nel Testamento Biologico. In altri termini, come afferma il Comitato Nazionale di Bioetica nel documento del 30.09.2003, un conto è considerare tali documenti come strumenti per migliorare il rapporto medico-paziente in quelle situazioni estreme e di confine in cui non sembra sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere; un conto, invece, è usarli come strumenti per introdurre l’abbandono terapeutico o, ancora più grave, forme mascherate di eutanasia o di suicidio assistito.

Il rischio del “pendio scivoloso” va evidenziato nella sua problematicità: introdurre, in modo inconsapevole, una visione utilitaristica della vita umana, secondo la quale la stessa è considerata degna di essere vissuta solo in determinati casi e solo se in possesso di determinati requisisti fisici o psicologici. Situazioni che hanno avuto una risonanza nazionale, come Piergiorgio Welby e Eluana Englaro, hanno sicuramente aperto un crocevia di questioni che vengono affrontate in maniera più o meno accurata da specialisti in campo medico, bioetico, giuridico, filosofico e teologico.

Tuttavia è raro trovare una riflessione sul senso della morte e anche sul senso della vita; è come se esistesse un deficit antropologico. Questa è la questione fondamentale che, a nostro avviso, deve essere affrontata prima di ogni appropriazione politica o interpretazione medico-giuridica. La morte rimane certamente un evento naturale, ma, per certi versi, sembra essere diventata innaturale per l’uomo d’oggi, il quale sa che i parametri della fisiologia, della biologia, della medicina non parlano un linguaggio adeguato quando descrivono il morire umano. Non c’è, infatti, nessuna scienza che possa parlare adeguatamente della morte dell’uomo, perché nessuna forma di sapere oggettivo è in grado di costruire una rappresentazione dell’esperienza umana.

La morte resta e resterà sempre un’incognita che può far paura, ma che può anche essere vissuta nella prospettiva religiosa della speranza della vita ultraterrena, che può essere accolta nella riconciliazione con il proprio essere finiti, che può essere sostenuta dalla serenità e dalla cura delle persone che ci stanno accanto. Proprio in virtù della laicità del nostro Paese, che permette la coesistenza di tutte le visioni culturali e religiose presenti nel nostro territorio, auspichiamo che si possa attivare, anche nella nostra città, un confronto sereno e capace di riscoprire il senso pieno della vita, a partire dalle questioni nodali veicolate dalla bioetica cioè, il rapporto tra espansione della tecnica e medicina, le questioni attinenti alla vita terminale e alla sofferenza, le complesse problematiche legate al depotenziamento del corpo. •

Curia diocesana

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