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Occhio alla bellezza

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numero 9“Occhi di ragazza, quanti cieli, quanti mari che m’aspettano, occhi di ragazza, se vi guardo, vedo i sogni che farò. Partiremo insieme per un viaggio per città che non conosco, quante primavere che verranno, che felici ci faranno, sono già negli occhi tuoi…” (Occhi di ragazza, di Bardotti, Baldazzi, Dalla). Che bellezza! Una delle canzoni più belle – forse la più bella – della musica leggera dei nostri anni giovani. E non solo. Un mondo, un futuro, un infinito incontenibile, un preludio di felicità, un di più incommensurabile oltre l’anatomia di un volto. Un andare verso, un continuo andare verso, fino alla profondità del senso dell’esistere, abbracciando tutto l’universo dentro il proprio cuore. Di fronte alla bellezza, inevitabile lo stupore: quel turbamento interiore, quel tremore come prova chi sa di trovarsi al cospetto di qualcosa di divino, di un eccesso che sovrasta.

Chiunque fosse Beatrice, così Dante pronuncia il suo, di stupore, al mostrarsi della bellezza di lei, a ogni incontro, così in vita come nel Paradiso Terrestre: “E lo spirito mio, che già cotanto / tempo era stato ch’a la sua presenza / non era di stupor, tremando, affranto, / sanza de li occhi aver più conoscenza, / per occulta virtù che da lei mosse, / d’antico amor sentì la gran potenza.” (Purg., XXX, vv 34-39). Noi siamo stati creati per la bellezza, ne abbiamo diritto, ne abbiamo il diritto! Se c’è una violenza inaudita, che grida vendetta al cospetto della bellezza di Dio e del Dio della bellezza, e che oggi viene riversata sui ragazzi, è l’uccisione della bellezza nel loro cuore. Li crocifiggono all’oggetto immediato del desiderio, gridando a ciascuno, sinistramente carezzevoli: portalo e servi! Non volare! Striscia! Pastoni di crusca al posto di una mensa imbandita con le delizie più dolci. Aridi sassi a occhi che brillano di desideri di pane! La misteriosa vibrazione della sessualità, l’arca bella (pulchra) degli arcana amoris, sia spazzata via – comandano ancora i detentori del potere della dissoluzione della bellezza – da servili tecniche di piaceri occasionali, mutevoli, capricciosi e autocollassanti; si appronti all’amore la fossa che lo divori, e che ne sia pronta il sepulcrum. Una parola, questa, che gli antichi latini coniarono per indicare nella morte la voragine non (solo) della vita, ma (più ancora) della bellezza: “se” infatti sta per sine (senza) e pulcrum per pulchrum (ciò che è bello).

Il sepolcro è ciò che è senza bellezza perché è un venir meno, è un’assenza, è lo svanire del futuro e di ogni frutto, di ogni possibile tensione verso la felicità. Di ogni relazionale e bella interiorità. La civiltà della diminuzione ha trasformato il mondo in uno sterminato sepolcreto: tutto è stato “mortificato”, dall’economia ai rapporti umani, dall’urbanistica all’arte, dalla politica all’informazione, dalla cultura allo spettacolo. Tutti siamo stati costretti ad accontentarci del poco, quando avremmo potuto pretendere molto di più. Avremmo potuto pretendere la bellezza. Il bello è che ci hanno convinto che quel poco fosse il tutto, che le ghiande fossero migliori delle castagne, che il sesso allo stato carnoso, ma sempre insoddisfatto e sempre violento e prevaricante, fosse più nutriente di quella misteriosa ed esaltante realtà d’amore che, quale ambrosia d’eterna giovinezza, “saziando si sé, di sé asseta” (Dante, Purg. XXXI, v 129). Ma questa bellezza, della quale subiamo il fascino e di cui lamentiamo la tentata dissoluzione, alla fin fine che cos’è? O anche, più cruciale: può esistere una quidditas della bellezza, una sua specifica natura? La traccia di Dio? Per non inceppare (!) nelle censure di qualche teologo e filosofo amico mi guardo bene dal dire di un’ontologia della bellezza, anche se, a ben pensare, una via forse ci sarebbe, e potrebbe avviarsi proprio dall’antinomia tra l’esperienza comune della bellezza e la sua totale persistente indefinibilità e inafferrabilità. E indecidibilità – caratteristica, questa, che si riversa in quel saggio, pur se riduttivo, detto d’uso comune: non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace. Mi domando, dunque, procedendo: quale altro orizzonte si mostrerebbe parimenti “visibile” e inafferrabile? Non forse l’orizzonte di Dio, se un tale orizzonte davvero esistesse? E quale altro orizzonte chiamerebbe, esso pure, e continuamente, a quell’inesausto “di più” che l’orizzonte della bellezza sembra aprire sempre al di là di ogni panorama, di meta in meta?

Ecco allora che la via del “più” come via della bellezza può essere un buon “metodo” ermeneutico o, almeno, una bussola verso una “quiddità”, almeno sui generis, di quell’ombra luminosa che, nella nostra esperienza di cercatori di luce, ci precede e ci avvolge, scaturendo dall’intimità delle cose e trasparendo sul loro volto. “Il volto di Madre Teresa di Calcutta, così rugoso che più di così non si potrebbe, è il volto più bello che io conosca”, confessò una volta un rinomato chirurgo plastico. Aveva ragione, vi brillava da dentro un’ombra d’Altri che lo rendeva fiorente e immortale. Al contrario dei tanti volti rifatti, rifatti per guadagnare tempo, che appaiono sempre “mortificati” e come diminuiti, appassiti e mummificati. “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, affermò Dio. Significa tante cose, quest’espressione, ma una in particolare per Eva e Adam: il volto di Dio si “aggiunge” e fiorisce sul volto di Eva per Adam, e così si “aggiunge” e sboccia sul volto di Adam per Eva. A entrambi non è data altra via (methodòs), se non quella della reciproca bellezza, per “vedere” il Creatore (“Occhi di ragazza…!). A quali e quante turpi degradazioni non abbiamo prostituito questo “metodo” di ricerca di Dio!

Il metalinguaggio della bellezza si parla certo nei chiostri delle abbazie, dentro le cattedrali e sui loro sagrati, ma può ascoltarsi anche in altri cortili ove vi siano ancora spiriti sensibili allo spirare del soave vento (Purg., XVIII, v 9) del mistero del mondo: “C’era nella vita delle cose – scrive Pirandello – un altro senso che l’uomo non poteva intendere: lo dicevan quegli astri col loro lume, quelle erbe coi loro odori, quelle acque col loro murmure: un arcano senso che sbigottiva. Bisognava andar oltre a tutte le cose che davano un senso alla vita degli uomini. Tutto le parve irreale, e che in quella irrealità la sua anima si soffondesse, divenuta albore e silenzio e rugiada.” (Suo marito) Ma se la bellezza è l’orto che Dio coltiva, il giardino dove cammina nella brezza della sera, si comprende anche il dramma, originale e perenne, che accompagna il dispiegarsi della bellezza stessa nella storia: “La cosa paurosa – annota Fëdor Dostoevskij – è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia e il cuore degli uomini.” (I fratelli Karamazov). È il mistero dell’angelo delle tenebre che, teste la Scrittura (S. Paolo, 2 Corinti, 11, 14-15), può vestirsi da angelo di luce. Come smascherare l’inganno? Non è semplice, ma forse non impossibile: nella proposta apparentemente lucente dell’angelo della tenebra si cela sempre una diminutio, una qualche perdita, mai un di “più”. Basta guardarsi attorno, e osservare quanti allettanti teatri di bellezza consumino coloro che si lasciano coinvolgere nelle loro lussureggianti e lussuriose, ma infelici e sterili, scenografie. •

Giovanni Zamponi

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