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Teilhard de Chardin: “il gesuita proibito”

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Il 30 giugno 1962, a sette anni dalla morte di Pierre Teilhard de Chardin, il Sant’Uffizio emana un Monitum nel quale, ribadendo una precedente condanna del 1957, si afferma che “in materia teologica e filosofica” l’opera del gesuita francese contiene “ambiguità” e “errori” tali “da offendere la Dottrina Cattolica”. Per questo, ai Superiori degli Istituti Religiosi, ai Rettori dei Seminari, alle Autorità Accademiche delle Università Cattoliche, viene ingiunto di fare del tutto perché “gli animi, particolarmente quelli dei giovani, siano tutelati contro i pericoli delle opere del Padre Teilhard de Chardin e dei suoi seguaci”. 

Questo Monitum del 1962 è l’ultimo di una serie di provvedimenti con i quali, al gesuita Pierre Teilhard de Chardin, uno scienziato molto noto nel campo della paleontologia e della paleoantropologia, viene proibito di pubblicare scritti che esulano dall’ambito di queste discipline. I guai di Teilhard hanno inizio nel 1924, quando viene privato della cattedra di geologia all’Istituto Cattolico di Parigi, e esiliato in Cina, per occuparsi di ricerche paleontologiche insieme a un suo confratello, il P. Licent, che stava allestendo a Tien-Tsin un museo dedicato alla raccolta delle tracce del paleolitico in Cina e in Mongolia. Il duro provvedimento è determinato dal fatto che Teilhard, in un breve appunto confidenziale destinato a un confratello belga, docente di teologia dogmatica, esterna una interpretazione del peccato originale difforme dalla dottrina tradizionale allora dominante nella teologia cattolica. L’esilio in Cina dura fino al 1946, anno in cui il gesuita fa ritorno in Francia. Istallatosi nuovamente a Parigi, si illude, per un breve momento, di poter dare il proprio apporto per la costruzione di una “Nuova teologia” in grado di dar corso a un pensiero cristiano capace di recepire le istanze di rinnovamento culturale e di riforma sociale che fioriscono nel clima del dopo guerra.

Teilhard però, già agli inizi del 1947, si rende conto che la sua presenza in Francia non è ritenuta opportuna né dalle autorità ecclesiastiche francesi, né da quelle romane. Per questo, nel 1951, dopo una serie di lunghi periodi di permanenza in Sud Africa e Kenya, per le ricerche sulle australopitecine da lui portate avanti dal 1948 al 1950, su pressante invito dei superiori parigini della Compagnia di Gesù, si trasferisce a New York. Qui, fino al 1955, anno della morte, lavora come assistente di ricerca alla Wenner-Gren Foundation, un Istituto che si occupa di ricerche paleoantropologiche nell’area dell’Africa sub-sahariana. Perché Teilhard, già a partire dai primi scritti redatti al fronte, nel corso della Prima Guerra mondiale, suscita reazioni preoccupate tra i superiori del suo ordine? Perchè, in seguito, riceve la proibizione di pubblicare scritti di carattere filosofico-teologico, ed è oggetto di reiterate condanne da parte dell’autorità ecclesiastica? Il motivo è legato al fatto che egli si propone di dar corso a un ardito programma di “necessaria rifondazione” della teologia cattolica. In tal modo, intende lasciarsi alle spalle non soltanto la dottrina tradizionale del peccato originale, ma anche i modi convenzionali con i quali viene pensata la realtà di Dio, la figura di Cristo, la pratica della vita cristiana, il rapporto della chiesa con il mondo moderno. Teilhard propone infatti di fuoriuscire da una figura di cattolicesimo costruita sulla diade autorità-obbedienza.

Egli intende, inoltre, lasciarsi alle spalle uno stile di vita cristiana ispirata da una risentita diffidenza verso le acquisizioni maturate dalle scienze della natura nel campo dell’evoluzione fisico-biologica del cosmo e della vita umana, e da una intransigente contrarietà verso le innovazioni prodotte dalla modernità nei modi in cui gli uomini concepiscono se stessi e danno forma a radicali trasformazioni nelle strutture della loro vita associata. Di questo vasto programma di “rifondazione” della cultura e della spiritualità cattolica fa parte, come scrive nel 1927, la necessità di staccarsi da una visione del cristianesimo commisurata alle dimensioni tipiche della cultura di “un mondo mediterraneo”, divenuta attualmente incapace di far fronte alle nuove immagini del mondo prodotte dalle scienze, come pure alle mutazioni antropologiche innescatesi a partire dall’avvento della modernità. Nel 1929, in una lettera indirizzata al geologo Gaudefroy, il gesuita confida all’amico che ritiene urgente scalzare “tre pietre deteriorabili poste pericolosamente nelle fondamenta della chiesa di oggi”. Tali pietre sono l’assenza di “democrazia” nel governo della chiesa, la minimizzazione del ruolo della donna nella vita ecclesiale e la sua esclusione dal sacerdozio, e, infine, una visione rigidamente dottrinaria della Rivelazione, “che esclude, per l’avvenire, la Profezia”. Egli ritiene esaurita, in tal senso, una mentalità cattolica fissata su schemi autoritari e patriarcalisti che impediscono ai credenti di interagire positivamente con i processi di democratizzazione della società e di emancipazione femminile prodottisi con le trasformazioni sociali e politiche avviatesi in epoca moderna. Un’altra formulazione molto sintetica del programma di “Riforma” del pensiero e della prassi della chiesa cattolica è reperibile in una lettera del 1950 indirizzata da Teilhard al P. Valensin.

In essa egli rileva che larga parte dei problemi che agitano la chiesa derivano dal fatto che sia le autorità ecclesiastiche che i teologi “non vedono il Mondo e l’Uomo nel modo in cui si manifestano a noi in questo momento”. Questa incapacità non è priva di conseguenze, poiché ha come effetto deleterio l’affermarsi di una predicazione nella quale viene presentato “un Dio per un Mondo finito (o che sta per finire)”. L’esistenza di tale sfasatura tra cultura cattolica e pensiero contemporaneo ha effetti particolarmente negativi, poiché si manifesta proprio nel momento in cui gli uomini avvertono un bisogno religioso che li spinge a indirizzare il proprio potenziale di adorazione verso “un Dio per un Mondo che sta cominciando”. Per Teilhard, dunque, nell’inadeguatezza della chiesa a far fronte alle nuove configurazioni del bisogno e dell’esperienza religiosa che si vanno delineando nella cultura contemporanea si radicano “tutta la difficoltà e tutta la grandezza del problema religioso moderno”. Tra le trasformazioni in atto nel mondo contemporaneo, il gesuita, negli ultimi anni della sua vita guarda con particolare attenzione alle acquisizioni maturate dalla fisica nel campo delle particelle nucleari, alle ricerche condotte dalla biologia nell’ambito della genetica, alle ricerche pionieristiche portate avanti da una nuovo disciplina come l’informatica. La combinazione di queste scoperte, insieme al progressivo imporsi di una condizione umana sempre più unificata, su una terra percepita come uno spazio sempre più ristretto e compresso, consente agli uomini, attraverso una ricerca scientifica pianificata su scala planetaria, di dar corso a un “rilancio” dell’evoluzione, la quale si muta, in tal modo, in un processo capace “di dirigersi e di accelerarsi da se stesso”.

L’avvento di questa condizione di “self evolution” della vita umana, designata da Teilhard con la formula “Ultraumano”, non dovrebbe, a suo avviso, al contrario di quanto invece effettivamente accade, creare nei credenti una condizione di “ansietà”, generata in essi dal timore di vedere “esplodere” le immagini di Dio e le forme di esperienza religiosa ereditate dalla tradizione. Al timore e all’ansia dovrebbe sostituirsi la convinzione che il messaggio cristiano, se opportunamente ripensato e riformulato, ha in sé le risorse simboliche, concettuali, esperienziali, capaci di offrire all’adorazione di uomini che stanno vivendo processi di profonda trasformazione culturale “il Dio tanto atteso”. Il gesuita francese, un pensatore molto attento a porre in luce le trasformazioni in atto nel mondo contemporaneo, mette la cultura e l’azione pastorale della chiesa cattolica davanti alla necessità di interagire positivamente con la progressiva espansione di una cultura nella quale si verificano profonde mutazioni nell’esperienza che gli uomini hanno di sé e del mondo, e, quindi, di conseguenza, anche di Dio. Se non si crea un positivo rapporto con tali mutazioni si verifica quello spiacevole e triste fenomeno in forza del quale, scrive John Stuart Mill in alcune righe che Teilhard sottoscriverebbe senza esitazione, “una fede ereditata, accolta passivamente e non più attivamente, resta estranea alla mente, incrostata e pietrificata in essa, refrattaria a tutte le influenze che si rivolgono alle parti più alte della nostra natura. In tal modo, la religione arriva a manifestare il proprio potere sbarrando l’accesso a qualsiasi convinzione nuova e viva, senza far più nulla per la mente o per il cuore, se non star lì, come una sentinella, a badare che restino vuoti”.

La triste vicenda del gesuita Pierre Teillhard de Chardin insegna, dunque, che, in una situazione culturale in profonda trasformazione, i cattolici dovrebbero evitare di andare a caccia di nuove eresie o di limitarsi a ripetere le solite giaculatorie deprecatorie sui mali del nostro tempo. Essi dovrebbero invece riflettere seriamente sull’impatto che le mutazioni in atto nel nostro tempo hanno sui modi convenzionali con i quali viene pensata e vissuta l’esperienza cristiana. •

G. Filippo Giustozzi

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