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È un tempo di verifica

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propedeuticoChe significa “anno propedeutico”?

È un’esperienza di discernimento che si propone a chi entra in seminario nata da un ripensamento globale dei seminari.

Che ripensamento?

Fino a trent’anni fa, tutti coloro che entravano in seminario, lo facevano attraverso il seminario minore, di solito le scuole medie o il liceo, per poi eventualmente passare in teologia. Quindi si rimaneva in seminario per molti anni e i formatori avevano tempo e modo di conoscere i candidati al ministero. Chi arrivava alla teologia lo faceva con alle spalle una formazione comune.

Invece oggi?

Questo background si è perso. Da alcuni anni i seminari minori non esistono quasi più. Chi entra in seminario potrebbe avere diciannove anni, e aver finito le superiori da poco, oppure avere più di trent’anni, ed essere passato attraverso l’università o un’attività lavorativa. Il propedeutico è un tempo in cui si cerca di valutare caso per caso le motivazioni di ciascuno e di offrire percorsi più personalizzati rispetto alle grandi strutture del passato.

È un progetto che esiste in tutti i seminari? Chi lo ha voluto?

Sì, nei grandi seminari esiste da oltre vent’anni, ma dal 2007 è diventato obbligatorio per tutti, anche per piccole comunità come la nostra. È stata una decisione della Congregazione quella di introdurre questo tempo di discernimento vocazionale.

Non è un po’ troppo un anno per capire se entrare o no in seminario?

Ci vuole tempo, anche perché spesso chi entra ha un’idea molto diversa della realtà che effettivamente trova. Le vocazioni non provengono quasi più dalle parrocchie come un tempo e non hanno più una cornice ecclesiale comune di riferimento. Per questo è stato pensato il propedeutico. Il senso è quello di aiutare i ragazzi ad inserirsi piano piano in quelle comunità che andranno a servire. Occorre ricostruire questo tessuto prima di poter edificare qualcosa di nuovo e di solido.

Da quali percorsi provengono oggi le vocazioni?

Per lo più da esperienze di conversione improvvise e radicali, dovute a pellegrinaggi in luoghi mariani, ritiri in ambienti monastici, appartenenze a cammini di fede in movimenti laicali. In tutti i casi, mi sento di dire che si tratta di persone che hanno incontrato autenticamente il Signore. Mi sembra di capire che però non hanno quasi nessuna esperienza di parrocchia. Sì, è così. Ma non sarei critico sulle esperienze in sé. Del resto, se il padrone della messe chiama da queste provenienze i suoi operai dobbiamo accogliere questo fatto come un segno dei tempi! La Chiesa ha il compito di discernere se i candidati hanno una serie di requisiti che li rendano idonei a svolgere un servizio esigente come il ministero ordinato.

E chi stabilisce questi criteri?

C’è un documento della Chiesa chiamato “La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana. Orientamenti e norme per i seminari”. Lì c’è una sorta di carta d’identità, un elenco di requisiti irrinunciabili. E poi la storia della Chiesa recente è ricchissima di documenti che possono essere di aiuto per stabilire delle priorità.

Per esempio?

Secondo me il documento più articolato e più ricco da questo punto di vista è un’esortazione apostolica post-sinodale intitolata Pastores dabo vobis di Giovanni Paolo II. Già vent’anni fa il papa indicava i binari su cui si sarebbe dovuta incamminare la formazione nei seminari.

Perché “si sarebbe dovuta”? Non l’ha fatto?

Non sempre.

In che senso? Forse dovremmo essere più esigenti?

Non credo, non è questo il problema, lo siamo già abbastanza. Gesù ha scelto persone normali. Anzi, persone deboli, fragili. Però le ha formate fino a farle diventare delle guide credibili che hanno evangelizzato nel giro di pochi anni tutto il bacino del Mediterraneo e poi sono morte dando la vita nelle persecuzioni. Non possiamo pretendere delle persone perfette, perché la Chiesa non è una comunità di puri, e neppure già formate, perché allora chiuderemmo i seminari, che a quel punto sarebbero superflui!

Nessun “Superman”, dunque. Ma allora chi?

No, noi non dobbiamo aspettarci superuomini, però uomini sì! Dobbiamo esigere uno spessore umano e spirituale indiscutibile perché la grazia possa operare. Su questo non si può transigere perché significherebbe la sofferenza del ministro e la sofferenza della comunità a cui quel ministro è inviato. •

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