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RECUERDOS ARGENTINOS: la partenza

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Ero in seminario a Fermo, quello vecchio, quello attaccato alla chiesa del Carmine. Un giorno, durante un ritiro, venne a parlarci don Carlo Muratore. Cercava qualche sacerdote da inviare nella chiesa sud americana, povera di clero. Era stato papa Pio XII a invitare le chiese europee a lasciar partire alcuni preti per l’Africa o Centro e Sud America. Così presi la decisione di chiedere al Vescovo Mons. Norberto Perini di farmi partire. Mi risuonava spesso il mandato di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo”. Dopo il corso di preparazione, presso il CEIAL (oggi CUM, Centro Unitario Missionario) a Verona, il 7 dicembre 1965, mi imbarcai a Genova con altri due sacerdoti, provenienti da S. Severino: d. Paris Maponi e d. Mario Lesti. Facemmo subito amicizia come sanno fare gli emigranti. In nave c’erano anche alcuni Vescovi che avevano preferito abbandonare la chiusura del Concilio Ecumenico per tornare prima in diocesi. Un Vescovo del Messico ci presentò una magnifica chiesa locale. Ci entusiasmò. Ma ci facemmo questa domanda “Se la situazione è così rosea, perché andare noi?”. Durante la traversata si contemplava solo cielo e mare, qualche volta anche molto mosso. Spesso, di giorno, si ammiravano i delfini che ci accompagnavano mangiando i nostri avanzi. C’erano anche dei pesciolini che uscendo dall’acqua, come uccelli, volavano per lo spazio per poi scomparire nelle acque. Al porto di Buenos Aires mi hanno accolto i fratelli di mia madre, Eugenio e Savino. Dopo un giro veloce per la città, siamo stati ospitati a Lomas de Zamora, una città nella gran fascia della capitale ove abitava mia cugina Catalina con Rosario, suo sposo, e Cachito, loro figlio, ancora alle elementari. Il giorno dopo, viaggiando in camionetta, pranzammo in San Nicolàs, ospiti dei Padri Gesuiti. Poi, oltrepassando la grande città di Rosario, arrivammo a Maria Susana, dimora degli zii e delle loro famiglie. Qui ho festeggiato il mio primo Natale. Per la prima volta ho celebrato una Messa soltanto. Il giorno dopo, esattamente al 5° giorno, dentro un treno pieno di polvere che entrava dai finestrini spalancati per avere un po’ d’aria, arrivai poco prima di mezzanotte ad Añatuya, sede vescovile, ospite del Vescovo Mons. Jorge Gottau. Era Capodanno. Mons. Jorge Gottau, primo vescovo della nuova diocesi di Añatuya, in provincia di Santiago del Estero, al centro nord, nel Chaco santiagheño mi affida la Parrocchia di Santa Rosa nella cittadina di nome Quimilì, ove già era presente P. Luis Zarantonello. Siamo in una grande pianura, con poche centinaia di metri sopra il livello del mare, distante circa mille chilometri dalla capitale Buenos Aires. Non ci sono fiumi nei dintorni. Il più vicino è a cento chilometri. Il primo problema dunque è l’acqua senza la quale non vivono le persone, gli animali, le piante. Le piogge sono abbondanti nei mesi estivi, per poi diradarsi negli altri sette-dieci mesi. Ci sono laghetti artificiali dove la gente e gli animali attingono acqua da bere. I più fortunati possiedono cisterne private, scavate e murate nel proprio terreno, dove poter raccogliere l’acqua piovana. L’aria è sempre calda o caldissima. È il clima continentale. Si suda di continuo e abbondantemente. Solo dopo il tramonto si respira benino per cui si organizzano partite di calcio o anche passeggiate. La vegetazione è ridotta ad una grande sterminata boscaglia. Il migliore legname, quello più pregiato, proveniente da alberi secolari, è stato venduto a pochi dollari a imprese senza scrupoli. Viene caricato su treni interminabili diretti al porto di Rosario e di Buenos Aires. È venduto alle nazioni ricche. Il legname che resta, viene trasformato in carbone attraverso un’operazione lunga. Si formano mucchi di legno a forma semisferica, simili a igloo. Il tutto si copre di terra. Il mucchio ha un foro centrale da cui fuoriesce vapore. Terminato il procedimento, resta il carbone. Una parte viene venduta, una parte viene utilizzata per asado e churrasco cioè per fare un buon saporito arrosto di carne bovina. È uno spettacolo vedere queste ciminiere fumanti. Tale povera attività rende qualche soldo agli abitanti.
Le strade sono tutte in terra battuta. Ogni tanto, soprattutto dopo la stagione delle piogge, passa un mezzo meccanico per livellare le strade riempiendo le buche più grandi. Il tutto dura però fino alla pioggia successiva, quando tutto ridiventa fango. Certe volte sono necessarie le catene alle ruote delle auto. Quando transitano i grossi camion sovraccarichi di bovini o legname si formano veri e propri avvallamenti. È quindi impossibile andare veloci. Occorre essere bravi ad evitare le buche più profonde.
Nel centro urbano poi passeggiano liberi i somari che qualcuno usa per piccoli trasporti. La maggioranza
non ha padroni. Un giorno mi sono alzato e non ne ho visto neppure uno. Tutti scomparsi. Mi sorprendo. Poi vengo a sapere che sono stati caricati sul treno merci e portati al macello, per pochi pesos. Diventano carne in scatola per cani e gatti aristocratici: che fortuna!
Nel nostro territorio c’è la ferrovia: ove lavorano alcuni impiegati che hanno case con parquet ben lucidato. A volte però qualcuno usa tale parquet per farne carbone da usare per arrostire l’asado. È un treno per trasportare merci e passeggeri. In caso siccità il treno trasporta cisterne d’acqua potabile. Tutti si mettono a correre per arrivare primi e attingere acqua.
Le abitazioni in centro sono di mattoni e calce. Quelle in periferia invece sono casupole di fango ben battuto (ranchos). Sono senza pavimento. Fresche d’estate, hanno il tetto verde per l’erba che vi cresce.
È la pacha mama (madre terra) che sostiene tutto. Intorno c’è una lussureggiante boscaglia ove convivono ogni sorta di insetti, rettili e qualche puma, (il leone americano). Succede, a volte, che alcune persone vi si perdono. Entrate nella boscaglia, chiamata “monte”, si disorientano e non trovano più la via d’uscita. Alcuni vi hanno perfino perso la vita, altri ne sono usciti, ma fuori di senno. Vane sono le ricerche svolte da amici o familiari.
C’è la corrente elettrica, prodotta da grossi motori diesel. Essendo la rete scoperta può accadere che qualcuno, lanciando un cavetto di ferro forma un corto circuito. Si interrompe l’erogazione lasciando le abitazioni e le strade al buio. In periferia, nelle case ci sono solo lampade a kerosene o a petrolio. Tutti, però, ascoltano canzoni, notizie e cronaca delle partite di calcio con le radioline a batteria.
La parrocchia e la chiesa hanno la presenza più o meno stabile di un missionario. Una volta all’anno passa un sacerdote, che resta una o più settimane per catechizzare, battezzare, celebrare, distribuire l’Eucaristia. Oltre la catechesi e l’evangelizzazione si fa pre-evangelizzazione che consiste in aiuti concreti: vestiti, medicine, vitamine.
L’animazione della vita parrocchiale, l’apostolato e la catechesi sono in mano a poche donne di buona volontà, preparate secondo la tradizione popolare. C’è molta devozione verso i santi, rappresentati da statue, davanti alle quali si depongono candele, fiori, e promesse più o meno mantenute. Sull’altare principale risaltano le bandiere del Vaticano e della nazione argentina. Sugli altari laterali ci sono statue di santi e sante. A volte, alla messa domenicale, sono più le statue dei santi che i fedeli.
Mi piace ricordare i bei tempi passati in Argentina. All’inizio (siamo nel 1966) ero nel Chaco santiaghegno, zona nord orientale della provincia di Santiago del Estero, nella cittadina di Quimilì, parrocchia Santa Rosa, dove vivevo con padre Luis Zarantonello. Per un periodo restai solo e poi arrivò a farmi compagnia don Oliviero Paladini.
Oltre il servizio liturgico con le varie celebrazioni in chiesa, in piazza e nella frazioni, dove c’erano scuole primarie, i cui alunni, affamati e assetati, arrivavano anche da lontano a piedi o in groppa a un somarello, offrivamo acqua da bere e mate, una bevanda locale. Da mangiare c’era la mazamorra, (un miscuglio di latte e mais con zucchero) molto gradita ai ragazzi perché spesso era l’unico piatto della giornata. Una volta, ad un Direttore che chiese ad un ragazzo quanti piatti di cibo avesse mangiato, l’alunno rispose: “tre tazze”! Fece così capire che aveva solo bevuto senza mangiare nulla in quel giorno. Noi sacerdoti fidei donum visitavamo le scuole ogni quindici/venti giorni, quando non pioveva. Essendo le strade solo di terra battuta, la pioggia le trasformava in fiumi di fango impossibili da transitare. Bisognava munirsi di catene. E nonostante questo si poteva comunque finire dentro grandi pozzanghere coperte d’acqua. L’auto restava sospesa e le ruote giravano a vuoto. In parrocchia c’era la Caritas che riceveva vari aiuti dalla capitale, Buenos Aires, e dalla Germania, dove il Vescovo si recava ogni anno riportandosi dietro ogni ben di Dio. Era tutto per la gente più bisognosa. Gli aiuti servivano anche per costruire scuole, edifici di pronto soccorso, case popolari in mattoni per sradicare le insalubri capanne di fango, chiamate ranchos, ove si potevano annidare tanti insetti e la vinchuca, insetto che causava il mal de chagas, portando alla morte lenta, dopo anni. I laici collaboravano per realizzare le cose più urgenti e necessarie. Era la cosiddetta minga, cioè il lavoro fatto insieme. Ci si impegnava anche nella costruzione di piccole chiese o cappelle per il catechismo, per gli incontri dei consigli parrocchiali, dei membri delle varie associazioni. Si favoriva il Movimento dei Corsi di Cristianità. Per avere più aiuti nelle opere di promozione umana, Mons. Gottau lanciò la campagna nazionale Màs por menos (Più per meno) invitando così tutta l’Argentina che aveva “di più” a dare un aiuto a chi aveva “di meno”.
Avendo il vescovo Mons. Gottau trasferito don Mario e don Paris alla cattedrale di Añatuya, lasciando vacante la parrocchia delle Madonna di Fatima, fui io ad esservi nominato parroco. La parrocchia della Madonna di Fatima, aperta da pochi anni era nella cittadina di Weisburd, distante circa trenta chilometri da dov’ero prima.
Ero andato per cinque anni, ce ne restai altri due. Poi rientrai nella mia diocesi d’origine, Fermo, dove il Vescovo, Mons. Cleto Bellucci, mi nominò amministratore della comunità del Sacro Cuore nella Faleriense di Porto Sant’Elpidio, dove sono restato per venti anni, sognando sempre di tornare in Argentina. Ma il vescovo non me lo ha mai permesso.
don Francesco Leonardi

About Tamara C.

Direttore de La Voce delle Marche

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