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La lezione di vita di un giovane eroe israeliano

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Le lettere di  Yonathan Netanyahu, il fratello dell’attuale primo ministro d’Israele, ucciso in Uganda, nel blitz di Entebbe del 1976

Yonathan Netanyahu
Yonathan Netanyahu

Qualche anno fa, lessi un articolo che ricordava il blitz di Entebbe del 1976 in cui un’unità scelta dell’esercito israeliano atterrò in piena notte nell’aeroporto della città ugandese per liberare più di cento ostaggi ebrei e israeliani tenuti lì da terroristi tedeschi e palestinesi dopo il dirottamento di un volo partito da Tel Aviv e diretto a Parigi. A comandare quell’impresa epocale era un giovane tenente-colonnello, comandante di Sayeret Matkal, la più prestigiosa unità dell’esercito israeliano. Il suo nome era Yonathan Netanyahu.
Durante il mio soggiorno in Israele per fare ricerca su questo libro, ho avuto modo di conoscere e parlare con entrambi i suoi fratelli: Iddo, medico e autore teatrale, e Benjamin, il primo ministro, che ha avuto la cortesia di ricevermi nella sua residenza di Gerusalemme.
Yonathan (Yoni) fu l’unico caduto israeliano di tutta l’operazione. In quell’articolo erano riportati anche dei brani dalle lettere che dai diciassette ai trent’anni, ovvero fino a pochi giorni prima di morire, Yoni aveva inviato ai suoi cari. Ne restai colpito per l’intensità, la durezza, la dolcezza e la profondità dell’analisi storico-politica. Ordinai il libro su Amazon (in quel momento ero a Londra e sembrava che nessuna libreria ne possedesse una copia né che fosse in grado di ordinarla).
Dalle lettere emergeva una sorta di romanzo epistolare di formazione di un giovane che, dopo essere stato plasmato dalla storia del proprio Paese l’avrebbe a sua volta plasmato con l’eccezionalità della sua impresa e del suo carattere. Il cammino di un individuo, del tutto consapevole di sé e delle proprie capacità, come si può notare fin dalle prime lettere, ma che vive con profondità e drammaticità prima l’essere lontano da Israele e poi il suo ruolo all’interno dell’esercito. C’è tutta la trasformazione di un giovane intellettuale in un grande combattente, che altro non voleva fare se non difendere l’esistenza del suo Stato e della sua gente. Un percorso perfetto e brutale, mai dimenticato. Visitando il cimitero militare di Gerusalemme, appoggiato su un fianco del Monte Herzl, la tomba di Yoni, una tra le tantissime tutte identiche le une alle altre, si staccava soltanto per la quantità di sassolini depositati sopra di essa, a testimonianza della quantità di persone passate di lì a dare il loro rispettoso saluto a questo giovane eroe.
L’eroe, appunto. Terminato di leggere il libro fu quella la prima cosa a colpirmi. L’inequivocabilità di ciò che la sua figura rappresentava. Un eroe autentico, classico, epico.
[…] L’eroe dunque, e la sua formazione. Nelle lettere c’è il dipanarsi di questo racconto epico. Iniziano dal 1963 quando Yoni era con la famiglia negli Stati Uniti dove il padre Benzion, grande storico, direttore dell’Encyclopedia Judaica e, in precedenza, assistente per anni di Jabotinski, uno dei padri della rinnovata idea dello Stato d’Ìsraele, si trovava per fare ricerca. La prima lettera la scrive dai sobborghi di Filadelfia a un suo ex compagno di classe di Gerusalemme. Da qui, come in tutte le altre lettere del suo anno americano, si sente un costante desiderio di fare ritorno in patria. Non importa se la famiglia, a cui pure era legatissimo, si trovava lì con lui. Era alla sua terra che Yoni voleva costantemente ritornare. Ritornare per difenderne l’esistenza. E questo accadrà l’anno successivo. Nell’estate del 1964 ritorna in Israele, da solo perché la famiglia era rimasta negli Stati Uniti, per iniziare il servizio militare. Sarà il momento che cambierà tutto. […] Dalle sue lettere non traspare mai uno spirito militarista, anzi, a volte si avverte il disagio per una vita che non sente interamente sua. Fino a pochi giorni prima della sua morte, fino alle sue ultime lettere, si troverà sempre il desiderio di questo giovanissimo colonnello, comandante di Sayeret Matkal, la più prestigiosa unità dell’elite dell’esercito israeliano, di fare ritorno alla vita civile. Perché questo è il punto. Yoni non era uno studente qualsiasi. Era stato ammesso ad Harvard e aveva ricevuto lettere d’invito da Yale e Princeton.
Finito il servizio militare obbligatorio per ogni israeliano maggiorenne avrebbe potuto fare ritorno ad Harvard, dove aveva iniziato gli studi di matematica e filosofia per poi abbandonarli perché l’impulso a tornare nel suo Paese per difendere l’esistenza stessa di Israele superava ogni altra aspirazione. C’è un passaggio, in una lettera indirizzata alla sua compagna Bruria durante il periodo di Pasqua del 1975, in cui si capisce chiaramente quanto profondo sia l’attaccamento di Yoni a Israele e il suo legame con tutta l’eredità ebraica: “Ho sempre pensato che fosse la più bella tra le nostre feste. È un’antica celebrazione di libertà, migliaia di anni di libertà. Quando navigo indietro nei mari della nostra storia, percorro lunghi anni di sofferenza, di oppressione, di massacri, di ghetti, di espulsioni, di umiliazione; molti anni che, in una prospettiva storica, sembrano vuoti di ogni raggio di luce, eppure non è così. Perché il fatto che l’idea della libertà sia rimasta, che la speranza persisteva, che la fiamma della libertà continuava a bruciare attraverso l’osservanza di questa antica festa, è per me testimonianza dell’eternità della tensione verso la libertà e dell’idea di libertà in Israele. […] Il mio anelito verso il passato si mescola con il mio desiderio per te e, a causa tua, scendo nel mio passato e trovo il tempo e la voglia di ricordare per condividere la mia vita con te. E con “passato” non intendo soltanto il mio proprio passato, ma il modo in cui vedo me stesso: come una parte inseparabile, un anello della catena della nostra esistenza e dell’indipendenza di Israele.” E lui, che si sente appunto un anello della catena dell’esistenza di Israele e del popolo ebraico, ritiene che il suo dovere morale, la sua chiamata sia quella per la difesa dello Stato ebraico. Scrive Yoni: “[il nostro esercito] è l’unica cosa che si interpone tra noi e il massacro della nostra gente, come successo in passato. Il nostro Stato esiste e continuerà ad esistere finché riusciremo a difenderci. Sento che devo dare una mano”.
Un giovane che avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, che poteva avere davanti a sé una carriera splendida negli Stati Uniti, sceglie di tornare in uno dei luoghi più violenti e pericolosi al mondo, sceglie di vivere la difficile e poco remunerativa vita dell’esercito, per la necessità di abbracciare ciò in cui crede. Sceglie, con tutta la forza e la radicalità che questa parola implica, la propria strada.
Quando, con Liberilibri, decidemmo di tradurre le lettere di Yoni in italiano, non ci stupì affatto che nessuno ci avesse pensato prima. L’atteggiamento dei Paesi occidentali verso Israele è quello che si ha, quando va bene, verso un compagno di classe troppo agitato, uno che sembra non faccia altro che creare problemi.
Altrimenti è un atteggiamento di disprezzo tout court, si guarda a Israele come a una forza di occupazione che piega sotto il suo giogo i palestinesi, o addirittura come il cancro originario che ha generato il radicalismo musulmano e la destabilizzazione del Medio Oriente di cui siamo testimoni ogni giorno.
Del resto, mi sembra chiaro che il disprezzo in cui la maggior parte degli europei tiene Israele sia in parte dovuto a una buona dose di odio verso noi stessi e verso i nostri valori fondativi che sembriamo aver rimosso e che invece rappresentano la spina dorsale su cui si regge lo stato ebraico.
Parlo dell’orgoglio di esistere e dell’orgoglio per la nostra storia e la nostra identità, la volontà di vivere e di progredire, la capacità di resistere, con tutti i mezzi necessari, agli attacchi di chi vuole privarci della nostra libertà e della nostra cultura. Israele, oltre ad avere tutti i canoni di un grande Paese occidentale in termini di libertà e diritti, poggia solidamente su questi valori che l’Europa ha rimosso o tende a rimuovere perché troppo impegnativi, soffocandoli dentro la rete del politicamente corretto e del solito senso di colpa verso tutto ciò che non è Occidente.
La figura di Yoni e le sue scelte esemplificano perfettamente questi valori. Una terra come l’Europa, in cui non solo i governi ma gli individui sembrano aver perso completamente di vista questi valori, appare sempre di più come un luogo privo di identità e di rispetto di sé. Appare come una terra perfetta per essere conquistata perché svuotata di qualsiasi tipo di identità propria.
La rinuncia alle scelte difficili, di cui è la politica a farsi carico, non può però certo essere imputata alla politica stessa.
Viviamo in un sistema rappresentativo, tutto ciò che viene fatto è lo specchio inevitabile delle scelte, o, per meglio dire, delle non-scelte dei singoli. Libertà e tolleranza, i valori essenziali e strutturali da cui derivano tutti gli altri, non vivono di vita propria. Sono strutture fragili e, come tali, vanno difese.
Non può esistere la libertà a meno che non venga difesa e quindi, la domanda da porsi diventa molto semplice e radicalmente individuale: cosa sono disposto a fare per difendermi? Quando la risposta è generica o evasiva equivale a dire non sono disposto a fare niente. E vedere altri, in questo caso Israele, che invece scelgono con drammatica determinazione ci mette con le spalle al muro, misura tutta la distanza che c’è tra ciò che dovremmo fare e ciò che non vorremmo dover fare.
L’Europa contemporanea, i giovani più di tutti gli altri, dovrebbero guardare a Yoni come a una figura esemplare perché l’Europa appare sempre più simile a Israele.
A Gerusalemme, Iddo, il terzo dei fratelli Netanyahu, ha avuto la gentilezza di farmi da guida. In uno di questi pomeriggi, mentre stavamo finendo il pranzo, gli è arrivata una telefonata dall’ufficio del primo ministro: avevano trovato una mezz’ora per inserire un incontro con lui. Terminati i lunghi controlli all’ingresso della residenza ufficiale, siamo entrati nel patio della villa e abbiamo atteso il suo arrivo su uno dei divani sotto i portici. Dopo poco, da una delle porte-finestre che affacciano sul patio, è comparso Benjamin Netanyahu. […] Parliamo di Yoni, con lui e con Iddo. Mi raccontano della loro vita da ragazzi, delle esperienze fatte insieme e di come il fratello maggiore sia stata una figura fondamentale nella loro formazione. Yoni rappresentava un esempio per i suoi fratelli a cui lui era legato da un profondissimo affetto.
Nel 1967, nel periodo in cui Yoni era brevemente ritornato a studiare ad Harvard, scrive a Benjamin che, in quel momento, diciottenne, si trovava in Israele per il servizio militare: “Molto spesso, soprattutto qui in America, mi manchi terribilmente. Anche quando ero in Israele non sentivo la mancanza di nessuno di casa quanto sentivo la tua. Penso che la ragione sia che tu sei il solo vero amico che io abbia mai avuto e che con te ho raggiunto un perfetto livello di reciproca comprensione in tutto.”
Sulla via del ritorno in Italia, il tassista che mi ha portato da Tel Aviv all’aeroporto era di origine georgiana, aveva circa settant’anni ed era arrivato in Israele nel 1970. Aveva combattuto nella guerra del Kippur e aveva continuato a servire nell’esercito come riservista fino a cinquantacinque anni. Gli ho chiesto come vedesse la politica israeliana e dalle sue risposte sembrava uno di quei tassisti grillini che chiamano La Zanzara: i politici sono tutti ladri, a me non piace nessun partito, a me piacevano solo i leader del passato come Begin o Rabin.
A quel punto gli ho chiesto cosa ne pensasse in generale dello Stato d’Israele. Ha assunto un’aria di grande calma e mi ha risposto semplicemente che Israele era la cosa più importante della sua vita perché, ha detto, “non mi fa sentire più soltanto ebreo, mi fa sentire israeliano”.
Ho pensato a lungo a questa risposta, cercando di capirne bene il significato che però, in realtà, era tutto lì davanti. Israele significa la costruzione di uno Stato, basato su una identità condivisa e su una storia, in cui tutti gli ebrei del mondo, più o meno credenti, possono trovare un’identità data dalla nuova identità statuale e territoriale che prima si disperdeva all’interno delle varie comunità locali in cui gli ebrei si mescolavano. Attraverso i confini, attraverso la costruzione di una nazione si è generata o, per meglio dire, si è definita un’identità da coltivare e da difendere.
L’Europa, chiaramente, non può più essere questo. Gli Stati nazionali in Occidente stanno perdendo il loro senso. Non perché sia stato deciso da qualcuno ma perché le istituzioni sono come organismi, tendono a evolvere, a modificarsi, ad adattarsi all’ambiente circostante. La mutazione nelle tecnologie e nella percezione del mondo da parte degli individui ha naturalmente portato all’abbattimento delle frontiere tra gli Stati più avanzati e mutualmente pacifici generando, in modo spontaneo, la tensione verso un nuovo ordine. Un ordine che, però, non è ancora qui. Ed è proprio nel momento della mutazione, in quel momento di indefinitezza di identità, che si è più vulnerabili agli attacchi. […] Il male si batte soltanto con un cosciente, per quanto drammatico, atto di violenza. Questo significa guardare in faccia la propria epoca con realismo e razionalità. Significa assumersi la responsabilità di agire su di essa e di plasmarla secondo quei valori che noi riteniamo giusti e da difendere.
Per questo nulla è possibile, nulla si può fare, per questo niente cambierà finché non decideremo di smetterla di giocare con i buoni sentimenti e di tornare, con sguardo lucido e mente fredda, a pensare chi vogliamo essere. Altrimenti, come è giusto che sia, come capita a tutto ciò che smette di combattere per vivere, saremo sommersi e sostituiti. •

Michele Silenzi

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