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Quella terribile domanda

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La strage di Dacca: cosa avrebbe detto il premio nobel Elie Wiesel.

“Dietro di me sentii il solito uomo domandare: Dove è Dio. E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo è appeso lì a quella forca”.
Appeso a quella forca nel campo di Buchenwald c’era un bambino ancora vivo.
L’immagine, la domanda e la risposta dello scrittore statunitense di cultura ebraica, Eliezer Wiesel, detto Elie, nel libro “La notte” sono tornate alla mente di chi, dalla sera del 1° luglio, ha seguito la cronaca della strage di Dacca: 20 persone trucidate di cui 9 italiane.
Nelle stesse ore Elie Wiesel, premio Nobel per la pace 1986, moriva a Boston all’età di 87 anni.
Approfondire i due fatti di cronaca è come percorrere, con un sentimento misto di apprensione, di dolore e di speranza, un ponte nel tempo.
La domanda dell’uomo che era alle spalle di Wiesel nel campo di concentramento nazista e la sua risposta tornano, infatti, puntuali, quando si è posti di fronte ad atrocità che mai abbandonano la storia.
La domanda di quell’uomo, con la sua angoscia, si ripete senza sosta.
La risposta di Wiesel lascia pensierosi e inquieti, perché non è un modo di dire, non è una battuta per tranquillizzare, non è neppure un’espressione umanamente comprensibile di fronte alla agghiacciante brutalità dell’uomo.
È però una risposta che non chiude ma apre la ricerca e la spinge fino alla soglia del mistero.
Si apre così un percorso interiore difficile e non bastano neppure le parole di “chi ha visto Dio appeso a una forca” per muovere i passi nella giusta direzione.
Non che quelle parole siano prive di significato, al contrario, ma è la persona che le pronuncia a renderle colme di significato, a renderle vere e vive.
Questa stessa persona di fronte alla tragedia, pensando a chi l’ha provocata e a chi l’ha subita, evita che le sue parole vengano svuotate da moralismi, da luoghi comuni, da scorciatoie mentre sono impervi i sentieri che portano alla vetta della risposta.
È ancora Wiesel a offrire un insegnamento rispondendo a chi gli chiedeva se avesse fatto pace con Dio per la sua “assenza” dall’Olocausto: “Continuerò a pormi domande su Dio per tutta la vita, ma proprio perché ho fede. La mia fede è troppo forte per farne a meno”.
Porsi domande su Dio, per Elie Wiesel, ha significato attraversare il silenzio, cioè pronunciare l’unica parola che non ha voce ma che ha forza sorprendente.
Anche oggi di fronte alle tragedie il silenzio arriva, non per coprire, non per zittire, non per rimuovere, ma perché è l’unica barriera contro il male che per esistere ha invece bisogno di urla, di fragore, di spari.
Nel racconto di Wiesel è evidente la domanda su un Dio che non ferma la mano del male e lascia che colpisca degli innocenti.
Il male non otterrà mai piena vittoria, afferma qualcuno, ma rimane anche vero che nell’esperienza quotidiana sembrerà che il male avrà sempre maggior potere del bene.
Divo Barsotti in “Dio …e l’uomo” (Piemme, 2001) scrive al riguardo: “Il turbamento che nasce da questa permissione di Dio è che noi non riusciamo a comprendere la ragione dell’agire divino: potrebbe il Signore avere sempre vittoria e invece sembra che egli non accetti vincere e rimanga solo spettatore”.
Ecco l’inquietudine, il contrario del disorientamento, che nasce al bivio tra la via del rifiuto di Dio e la via della ricerca di Dio.
La scelta non è semplice, è tra lo smarrirsi lungo i sentieri del male e il ritrovare se stessi nel percorrerne altri che portano a comprendere la scelta di Dio di essere appeso alla forca e di morire in un ristorante a Dacca. •

Paolo Bustaffa

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