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Luciana Cameli: La civiltà del passato presente in un luogo da Amarcord

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Sotto la tettoia
Ti ricordi, Luciana, di quando il futuro
ci pareva cosi azzurro e lontano.
Come il mare che si faceva stretto,
giù in fondo, per riposare intero
appoggiato lì, sopra il davanzale.
Ricordi com’era bello
sentirsi parte di una generazione
capace finalmente di superare il crinale
e raggiungere il luogo atteso
dove gli uomini non erano più capaci
di farsi ancora del male.
Poi il presente dentro la nostra vita
col fracasso di una ruspa
a confondere inverni e primavere.
La fretta, il progresso, la confusione.
La valle strozzata
coi fumi e con le ciminiere.
Il dolore, infine, di scoprire
che la nostra è stata la generazione
che ha rotto il suo nido
per rifarlo peggiore.
Ci sembrava che cambiare il mondo
fosse un gioco.
È già qualcosa aver salvato
la zolla dove siamo nati
e che ci nutrì con la linfa e la passione.
L’abbiamo difesa con le unghie
dietro un muro
contro l’arroganza, contro la derisione.
Sotto la tettoia la luna
è ancora intera e buona
mentre la ruggine intorno
si sta mangiando tutto
ma non quel po’ che resta
del nostro futuro.
Gilberto Carboni 2008

C’era una volta la civiltà contadina nata dopo quella nomade e quella dell’uomo cacciatore. È grazie “alla madre terra”, che si sentì l’esigenza di fermarsi e di trascorrere la vita con tempi e ritmi più naturali. Nacque così il bisogno di coltivare la terra e trarre da essa il cibo. Per questo il mestiere di contadino è il più antico del mondo e preziosissimo in ogni epoca. Chi coltiva la terra e ne ha cura, assicura la sopravvivenza e il progresso dell’umanità.
Come tutti i mestieri del mondo, nel corso della storia, il lavoro del contadino ha subito delle trasformazioni ed è di questo che mi ha parlato Luciana Cameli, docente di lettere fino a qualche anno fa alla Scuola Media di Pedaso. Incontrarla è stato piacevole ed utile.
La famiglia contadina non conosceva né feste né riposo. Erano mezzadri per la maggior parte e pagavano l’affitto con la metà del raccolto. All’inizio tre parti andavano al proprietario e una all’affittuario, fino a quando leggi più eque migliorarono a situazione. I contadini erano nella quasi totalità analfabeti, tranne poche eccezioni. Conoscevano poco o niente dello sviluppo e del progresso civile che avveniva nella società, ma conoscevano benissimo i cicli di produzione della terra.
Oggi, questo tipo di lavoratori, non esiste più ma dai racconti di Luciana, dalla osservazione degli attrezzi di lavoro da loro adoperati e custoditi nel Museo dell’arte contadina, allestito nei pressi della sua casa di famiglia e dalle vecchie fotografie, si ha testimonianza di quanto difficile sia stata la loro esistenza. Suggestive immagini di gente che ha onorato il proprio lavoro, da cui traspare sofferenza, fatica, ma tanta dignità e sano orgoglio.
Mi racconta Luciana che il lavoro dei contadini non si esauriva mai. L’anno agrario iniziava con la semina ma prima bisognava dissodare il terreno, togliere le pietre più grosse, bruciare i cespugli, sradicare le erbacce ed infine arare il terreno. Si metteva il giogo ai buoi cui era attaccato l’aratro e con esso si tagliava il terreno con il vomere e si rivoltava la fetta di terra. Ma tanta fatica non terminava qui perché era necessario concimare o meglio “nutrire” il terreno ed infine si spargevano a mano i chicchi di grano.
Gli attrezzi che osservo ben in vista nello spazio museo di casa Cameli, riportano indietro nel tempo in cui a primavera si levavano a mano le erbacce infestanti. Le donne mietevano l’erba, cantando stornelli a dispetto, per poi essiccarla e fare il fieno che serviva come cibo agli animali, quando questo scarseggiava.
Si mieteva verso giugno, con le giornate lunghe e gli insetti fastidiosi. Ci si alzava la mattina prestissimo, prima che il sole scaldasse troppo la giornata e si iniziava a mietere per poi passare alla trebbiatura con un macchinario mosso dal motore del trattore e capace di separare la paglia dal grano in pochi minuti. Ma la fatica non diminuiva perché il caldo, la polvere, il rumore erano infernali e i ritmi di lavoro aumentati e dettati dalla macchina.
Finita la trebbiatura i contadini si preparavano per la vendemmia. È ciò di cui mi parla di più Luciana, cioè della lavorazione del vino. La raccolta dell’uva era festa e gioia perché coinvolgeva uomini, donne e bambini ma anche amici e parenti. Ognuno munito di coltello e paniere si metteva davanti il filare e raccoglieva l’uva tra risate e canti, barzellette e battute piccanti, mentre i carri si riempivano di grappoli succosi. L’uva veniva messa in grosse vasche in muratura e quando i carri finivano di trasportarla, iniziava la pigiatura. L’uva si iniziava a calpestarla con i piedi nudi, per fare uscire il mosto dagli acini e poi si continuava con la spremitura adoperando la pressa per fare uscire il rimanente. Alla fine il mosto veniva portato in cantina e versato nelle botti. In seguito si utilizzeranno nelle cantine Cameli i primi macchinari elettrici. Come si può ora vedere nel museo enologico allestito nella parte di opificio rimasto intatto da un secolo.
Oggi tutto è cambiato. Nell’arco di tempo di alcuni decenni, la nostra economia non è più prevalentemente agricola ma anche industriale, commerciale e turistica. Il modo di coltivare le terre è cambiato. Da un’agricoltura arcaica si è passati a un’agricoltura meccanizzata, da un’agricoltura estensiva verso un’agricoltura intensiva. Si predilige la coltura in serra dove pochi metri quadrati danno quantità di prodotti che prima erano prerogativa di svariati estensioni di terreno. L’idea stessa di contadino è cambiata.
Non è più l’uomo dalle mani callose, che viveva sempre chiuso nella sua campagna, curvato dal lavoro, con la pelle del volto rugosa o scura per il troppo sole. Oggi il nuovo coltivatore diretto si è solo adeguato ai tempi ma fino a quando ci sarà agricoltura ci saranno i contadini, magari dai nomi diversi: “olivicoltori, viticoltori, ortolani, frutticoltori, operatori agricoli” ma continueranno ad esserci. Ad essi si richiede l’acquisizione di una cultura tecnologica ed lo specializzarsi in colture specifiche effettuando quasi tutti i lavori con mezzi meccanici e soprattutto mettendo a disposizione il proprio cervello. Oggigiorno ci si reca nelle aziende agricole in macchina. Si lavora otto ore al giorno e si percepiscono redditi molto più decenti di un tempo. Spesso si tratta dei nuovi giovani lavoratori della terra, eredi dei contadini di un tempo.

Luciana si racconta:
«Non è senza qualche emozione che rivivo lontani ricordi che scaturiscono dal più profondo della memoria. Sono nata nella grande casa ottocentesca costruita dai miei nonni. Una famiglia patriarcale tipica delle Marche. Dimora e opificio nello stesso tempo.
Poi gli studi classici, l’insegnamento portandomi dentro le mie radici lontane.
Infine il lungo restauro anche della villa liberty, completato nel 2008, così emozionante e faticoso e il recupero di ogni oggetto che ricordasse il lavoro del vino e della terra.
Ora d’estate, nell’antico spazio di lavoro “Sotto la tettoia”, al riparo dalle cattive lune, si svolgono incontri culturali. In alcuni spazi delle ville io e mio fratello Vincenzo ospitiamo chi vuole vivere in antiche atmosfere. Una mia amica scrittrice mi chiama ” La bella addormentata nel mosto”. Mi piace».

Di Luciana mi piace uno dei ritratti di Arnoldo Ciarrocchi. Il volto e gli occhi espressivi e fieri. La sua bella casa di fine ottocento di proprietà del fratello Vincenzo, il nome del nonno, si trova nella S.P. Valtesino di Grottammare, in provincia di Ascoli Piceno, poco distante dal mare. La famiglia Cameli di cui porta con giusto orgoglio il cognome, proveniva dal Casale, un antichissimo agglomerato spontaneamente accresciutosi nei secoli, immerso in ulivi secolari e circondato da vigne estese, a 5 chilometri dal paese, sempre in zona Valtesino, ma sulla sponda destra del fiume.
La prima grande casa aveva il sotterraneo adibito a cantina per le botti di legno e sopra vi era collocata l’abitazione. Per quasi un secolo è stata qui raccolta tutta l’uva prodotta lungo la vallata, dalle dolci colline ascolane fino alla montagna.
La costruzione è di tipo tradizionale, sia per la forma che per l’impiego dei materiali. Le Cantine Cameli, rappresentando la fase più importante del processo produttivo, quella della trasformazione e della commercializzazione, a ragion veduta sorgono nel fondo valle e in prossimità di una strada di collegamento tra le zone interne e le direttrici del traffico commerciale marittimo e litoraneo. Si collocano storicamente nel punto più alto di una lunga evoluzione dei sistemi di agricoltura. Lo sviluppo dell’impresa familiare in questo periodo è stato fortemente sorretto dalle nuove tecnologie.
Il quadrante elettrico, posto in alto sul muro della cantina e dimenticato per più di mezzo secolo, ne è oggi testimonianza.
Il complesso si prefigura come unico residuo di quelle attività protoindustriali che videro Grottammare, nell’Ottocento, protagonista e capoluogo di innumerevoli iniziative nel campo della trasformazione dei prodotti agricoli.
Agli inizi del Novecento la famiglia si stabilisce nella nuova casa, proseguendo l’attività agricolae dedicandosi prevalentemente alla produzione di vino.
Intorno agli anni venti è stata costruita la seconda casa, di vago stile liberty, anch’essa con il sotterraneo adibito a cantina, ma qui le vasche, sono direttamente costruite in cemento.
Le botti di legno della prima costruzione vengono eliminate e sostituite con quelle in cemento collegate da una serie di tubi di rame.
Altri locali sarebbero stati costruiti subito dopo per poter svolgere l’attività vinicola sempre più crescente. Tutto il resto dei fabbricati che visito con piacere e interesse, risale agli anni trenta.
Si conservano intatti ancora oggi, all’interno ed all’esterno, tutte le strutture e i mezzi originari per le tecniche delle vinificazioni.
La spaziosa stanza attigua alla prima casa servirà nel tempo da mensa per gli operai e infine da scuola rurale e seggio elettorale, fino agli anni settanta.
Una grande “tettoia” unisce le due case ed è stata luogo di lavoro, sosta per lunghi rimorchi, spazio per pranzi di cerimonie ed anche “sala cinematografica” negli anni cinquanta-sessanta per la proiezione di film a carattere informativo, riguardanti le nuove tecniche agricole.
La parte più lontana dall’abitazione era adibita a rimessa per attrezzi e a stalla per buoi, cavalli e animali da cortile. L’aia è racchiusa in questo grande spazio.
Tutto intorno si vedevano, in quegli anni, ordinati filari di viti, ulivi e alberi da frutto. Purtroppo nel 1975 le cantine sono state definitivamente chiuse. Subentravano velocemente altri stili di vita e di lavoro. Nel 2008 Luciana e Vincenzo hanno visto terminare un gravoso e lungo restauro conservativo, da loro commissionato. Oggi il complesso di valore architettonico e storico documentario prende il nome di B&B CANTINE CAMELI ed è anche sede di incontri culturali sotto “La Tettoia”. Un modo originale di coniugare la cultura del passato con quella presente.
Ringrazio di cuore Luciana per l’ospitalità e la bellezza del nostro fantastico incontro.
Di questa donna straordinaria conservo un bellissimo ricordo sia come collega che da ex insegnante di uno dei miei figli. Ritrovarla dopo alcuni anni in cui ognuna di noi ha preso nuove vie, è stato davvero un dono grande da conservare e mantenere con la massima cura. •

About Stefania Pasquali

Stefania Pasquali nativa di Montefiore dell'Aso, trascorre quasi trent'anni nel Trentino Alto Adige. Ritorna però alla sua terra d'origine fonte e ispirazione di poesia e testi letterari. Inizia a scrivere da giovanissima e molte le pubblicazioni che hanno ottenuto consenso di pubblico e di critica. Docente in pensione, dedica il proprio tempo alla vocazione che da sempre coltiva: la scrittura di testi teatrali, ricerche storiche, poesie.

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