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L’atto di dolore, bene inteso, è corretto in tutte le sue parti

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Il Dio di Gesù Cristo è un Dio della misercordia, pietoso e lento all’ira, ricco di amore e fedeltà

Di grande attualità in questi giorni è tornato il tema del “castigo divino”, che tanto appassiona da sempre il pensiero dell’uomo in relazione alla propria condotta morale e al proprio rapporto con Dio.
La tentazione che scorgo, da sempre, però, è quella di dare una descrizione eccessivamente antropomorfa di Dio, tanto da trasferire su lui atteggiamenti che sono tipicamente umani. Certamente quando immaginiamo l’inferno (che è il massimo del castigo), diventa quasi naturale darne una descrizione dantesca pensandolo primariamente come un luogo. Piuttosto l’inferno è uno stato: una condizione che consiste nella separazione eterna da Dio; come ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, esso è una diretta «conseguenza di una avversione volontaria a Dio, cioè di un peccato mortale, in cui si persiste fino alla fine» (n. 1037). Il peccato grave, ovvero l’atto (o anche l’omissione) deliberatamente voluti, sapendo che sono contrari alla volontà di Dio che è indicata dal Vangelo e dai comandamenti, esclude chi li compie dal Regno di Gesù, dalla sua eredità di amore e di gioia.
Accanto, poi, al castigo eterno ci sono dei castighi non eterni, o, meglio, dei danni temporali: anch’essi sono conseguenza diretta di una colpa volontaria. Ancora il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1861) menziona come mali temporali, la perdita della carità e della grazia santificante. L’autentica dis-grazia, infatti, è proprio perdere la grazia in senso stretto. Gesù parlò della grazia santificante quando disse: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv. 14,23). Vivere “in grazia” significa abitare/stare, vivere e agire in Dio, in comunione profonda col suo amore e significa anche che Dio è colui che ispira, ci ispira, ci muove, ci trasforma, ci divinizza, ci configura a Cristo (in questo senso, possiamo leggere la colletta del Giovedì dopo le Ceneri: “Ispira le nostre azioni, Signore, e accompagnale con il tuo aiuto, perché ogni nostra attività abbia sempre da te il suo inizio e in te il suo compimento”). Se perdiamo la grazia, perdiamo questa comunione e, da capolavoro dell’amore di Dio (Cfr. Sal. 138,14 e Sal. 8,6), ci trasformiamo in mostri: da deiformi diventiamo deformi.
Rifiutata la possibilità del pentimento, della conversione di vita, dell’apertura alla misericordia di Cristo, ci si chiude nella propria autosufficienza e si diviene ostili alla grazia e all’amore di Gesù: quindi diventa chiaro che il castigo l’uomo se lo infligge da solo e lo fa a causa dei propri peccati:
Già il profeta Geremia ammoniva Israele ribelle di questo rischio: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio» (Ger. 2,19). E il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 679) lo ribadisce: «Il Figlio non è venuto per giudicare, ma per salvare e per donare la vita che è in lui. È per il rifiuto della grazia nella vita presente che ognuno si giudica da se stesso, riceve secondo le sue opere e può anche condannarsi per l’eternità rifiutando lo Spirito d’amore». E anche: «Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola “inferno”» (n. 1033).
Ma Dio è sempre alla porta della nostra anima, bussa in attesa che, chiunque lo voglia, lo accolga per stare con lui, abitare nuovamente con lui e con lui ristabilire una comunione profonda (Cfr. Ap. 3,20); in ogni momento è pronto andare alla “ricerca della pecora perduta” (Cfr. Lc. 15,4).
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’uomo è creatura e, in quanto tale, è radicalmente dipendente da Dio. È Dio che lo crea: creare significa dare l’essere, e esser creato significa ricevere attualmente l’essere; ciascuno di noi è creato in Cristo e in vista di Cristo (Col. 1,16-17) e della comunione piena con lui.
Credo, pertanto, che i detti popolari: «Chi è causa del suo male pianga se stesso» e «Finché c’è vita c’è speranza», possano essere esemplificativi di questo mistero delle nostre colpe e della tensione esistenziale alla conversione dei pensieri, del cuore e della vita.
Certamente l’espressione “ho meritato i tuoi castighi”, presente nell’atto di dolore (Rito della Penitenza, n. 45 – prima formula -), può invece veicolare l’idea contraria: quella di un Dio che punisce, di un giudice senza pietà; persino può farci pensare che i mali che ci capitano siano da ricondurre direttamente a un castigo di Dio (d’altra parte questo è ciò che dicono a Giobbe i suoi amici: essi cercano di convincere Giobbe che c’è un motivo per la sua sofferenza: se Dio lo ha colpito in modo così grave, Giobbe deve avere una qualche responsabilità, deve avere un qualche peccato. Ma Giobbe non è convinto, anzi è convinto della propria giustizia e chiede conto a Dio… e Dio risponde ponendosi davanti a Giobbe e sottoponendolo a una serie di interrogativi, ai quali Giobbe non è in grado di rispondere; per cui è costretto, al termine di questo confronto con Dio, a riconoscere la propria piccolezza e a rinnovare la sua fiducia in Dio, che non vuole il male anche se, per motivi che lui non comprende, lo ha permesso).
L’immagine di Dio rivelata da Gesù è invece quella di un Padre misericordioso, che attende il ritorno, la conversione di chi sbaglia e è pronto a riaccoglierlo tra le sue braccia, come appare nella parabola “del Figlio prodigo” (Cfr. Lc. 15,11-32).
Come intendere allora l’espressione dell’atto di dolore? Significa che io mi rendo conto della gravità dei miei peccati, li riconosco e ammetto di meritare un castigo. Prendo coscienza soggettiva del male che ho commesso e delle conseguenze negative che il peccato ha nella mia vita.
L’atto di dolore distingue, infatti, tra dolore imperfetto (motivato da timore: «Ho meritato i tuoi castighi») e dolore perfetto (motivato da amore: «Ho offeso te infinitamente buono e degno di essere amato»). Questo non deve indurci ad attribuire a Dio disgrazie, malattie, prove incombenti. Piuttosto, il castigo del peccato consiste nel perdere l’amicizia, la comunione con Dio Padre (come riconosce il figlio prodigo: «Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio»).
Così come San Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia ha scritto: il peccato “finisce per rivoltarsi sempre contro colui che lo compie con una oscura e potente forza di distruzione” (n. 17).
È senz’altro un fatto che la tradizione biblica, numerose volte parla dei castighi di Dio. Un testo fra tutti, Es. 34,6-7: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. La consapevolezza che ci viene da questi testi, però, non va assolutizzata, ma può essere utile per giungere proprio, se vogliamo continuare ad utilizzare il linguaggio della tradizione, al cosiddetto “dolore imperfetto”, motivato cioè dal timore, dalla paura delle conseguenze; ma, illuminati dall’Evangelo (dalla buona Notizia) annunziato da Gesù, possiamo fare un deciso balzo in avanti e giungere al “dolore perfetto”, motivato, invece, come già affermato, dall’amore verso Dio “infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa”.
A mio avviso, se ben interpretata, quindi, la formula tradizionale dell’atto di dolore, può essere ancora recitata; e tenendo in debito conto la globalità dell’insegnamento biblico e della tradizione della Chiesa, sommariamente ricordati sopra, non dovrebbero esserci equivoci… e maldestre attribuzioni a Dio di castighi o dei mali che ci affliggono. •

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