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Il filo rosso della chemio

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Vita da malati, risposte del medico, preghiera della Chiesa

La questione cruciale è: il malato informato è più o meno malato? La provocazione non sembri inopportuna e fuori luogo: la malattia si lega all’ansia e l’ansia si lega alla malattia, si intrecciano e si influenzano a vicenda.
Quando ero studente, e mi interessavo un po’ di storia della medicina, non capivo perché l’arte medica antica e dei secoli recentemente passati si incentrasse tanto sulla prognosi, sì da farla precedere addirittura, in ordine d’importanza, ai momenti della diagnosi e della terapia.
In realtà, allora, come oggi, la rilevanza della prognosi discendeva dal desiderio di sapere, e sapere che la vita si sta dileguando non è esattamente uguale a sapere che la vita sta rifiorendo o, comunque, che non ci sta abbandonando.
Esaurita – forse giustamente, forse improvvidamente – la fase della medicina paternalistica, si è imposto con sempre maggior forza ed evidenza – giuridica, deontologica, operativa – il paradigma della medicina contrattualistica: l’atto medico trae legittimazione, esplicita o implicita, da un contratto tra gli attori di un servizio: il paziente, che è il fruitore, e il medico che è l’erogatore.
Così posta la questione, è ovvio che chi offre deve spiegare compiutamente cosa offre e chi acquista deve sapere chiaramente che cosa acquista e decidere di conseguenza.
Questo però in linea di principio, perché il bene che qui si offre e si acquista non è puntualmente quantificabile e definibile, perché si tratta della salute, e la salute è quanto di meno definibile e quantizzabile possa pensarsi.
Onde il legislatore ha previsto, limitando il campo e aumentando l’incertezza, che il paziente abbia il diritto di sapere tutto sul proprio stato e che debba fornire un consenso dettagliatamente informato su qualsiasi procedura venga attuata su di lui.
Siamo in uno dei sempre più numerosi campi nei quali la logica della legge, con tutta la buona volontà di chi la redige, non rispecchia la logica delle cose, perché, se si volesse ottemperare ai dettami della norma, non si potrebbe porre in essere alcun atto medico.
L’informazione reca sempre, infatti, le stigmate dell’incompiutezza, e il consenso sarà sempre afflitto da una più o meno severa inconsapevolezza. Non occorre essere dei semiotici per intendere che quando un’informazione passa da A a B subisce una serie di condizionamenti e di deformazioni che vanno dall’incertezza di A su ciò che vuol comunicare, dal canale e dal modo da lui utilizzati, e poi dagli strumenti di ricezione a disposizione di B, dalle sue attese e dalla sua abilità di decodificare o di apprendere al di là dei limiti del codice.
Se questo è vero per l’informazione in generale, sarà tanto più vero per l’informazione medica, perché la disparità di conoscenze e aspettative è veramente notevole tra i vari attori. Anche quando il paziente è un medico l’informazione e il consenso risultano problematici, perché lo sbilanciamento dei ruoli – uno in condizione di superiorità e l’altro, forzatamente, di inferiorità – rende tutto complicato.
V’è poi la questione tempo che per l’operatore sanitario è talvolta ostativa, mentre il paziente non l’avverte affatto e anzi tende, spesso iterando e deviando, a forzare e protrarre il dialogo, avvitandosi su dettagli poco significanti, senza avvedersi che l’interlocutore non di rado mentalmente si assenta avendo anche altri pensieri che gli turbano e invadono la mente. Tipici esempi sono le discussioni infinite sui contenuti dei foglietti illustrativi dei farmaci, dalle quali, in genere, si viene fuori intimando al paziente: se non lo vuole assumere, faccia lei!
Il disagio, in questi casi, può trasformarsi in petulanza, da una parte, frettolosità e arroganza, dall’altra, esitando in ostilità più o meno palese che non è fonte di nulla di buono, e anzi talora può condurre a esiti di malpractice (mala sanità).
Talune unità operative (reparti) hanno pensato di risolvere il problema del tempo consegnando articolate informative, stampate talora su qualche decina di fogli, che il paziente dovrebbe leggere, meditare, soppesare e poi assumere le sue decisioni firmando. Qualcosa di simile ai contratti assicurativi, rispetto ai quali sono solo scritte con caratteri più leggibili. La difficoltà è che, per essere comprese, richiederebbero una competenza, più o meno profonda e ampia, di natura medica. Il che è assurdo.
Così al medico di fiducia si presentano assistiti con questi fogli in mano implorando qualche ausilio, ma ci vorrebbero giornate intere per esplorarli da capo a fondo e, dunque, dopo una sommaria delucidazione, si ricorre all’escamotage che, essendo informative di carattere specialistico, è lo specialista che le propone che le deve illustrare (il che legalmente è vero). Così il cane torna a mordersi la coda. Alla fine il paziente, o chi per lui, una firma in qualche modo l’appone e tutti si sollevano da un onere che di fatto è rimasto tutto da sollevare.
Durante un ricovero, che sia per intervento o per diagnosi o per altro, più volte al ricoverato può essere sbrigativamente richiesto di firmare dei modelli di consenso, il quale, di fatto, resta sovente ampiamente o titalmente disinformato, aprendo la stura, se le cosa vanno male, a infinite contestazioni e giustificazioni in campo giuridico.
Come se ne esce? Non so, tecnicamente è difficile trovare soluzioni. Ci vorrebbe il ritorno del buon senso e del clima di fiducia reciproca, merci attualmente poco disponibili sugli scaffali delle relazioni personali.
E proprio la fiducia è indispensabile quando si tratta di malattie a prognosi infausta, o potenzialmente tale, o comunque siffatte da modificare profondamente una vita e il suo stile, nonché a gestione molto complessa e debilitante.
Taluni optano, e consigliano di optare, per un’informazione il più completa possibile, quale che sia poi il risultato psicologico e relazionale dell’interessato. Altri, con maggiore saggezza, non esente dalle critiche dei primi – il malato potrebbe avere cose molto importanti da gestire prima di morire, sostengono quelli! –, ritengono che la verità, qualunque ne sia l’estensione, debba essere somministrata a piccole dosi, per non devastare nell’animo persone già ampiamente devastate nel corpo. Lasciando sempre il campo a un barlume di speranza.
Difficile distribuire torti e ragioni. Qui veramente occorrerebbe attivare, e mantenere in vita, quella “cellula del buon consiglio” di cui parlava P. Ricoeur, nella quale non solo il medico e il paziente, ma anche altri attori intervengono a formulare e far funzionare quell’alleanza terapeutica della quale, in questi casi, c’è vero urgente bisogno.
Fermerei a questo punto un discorso forse disorganico, probabilmente lacunoso (confuso?), magari disinformante (anche se non è stata questa l’intenzione), tornando per un attimo al tema della fiducia. Tutti sanno che anche nel servizio sanitario ci sono delle isole felici, isole dove il primario o qualche dirigente o il personale si pongono su un piano di effettiva accoglienza. E di una reale informazione che va ben oltre le regole legali del consenso. Sono la dimostrazione che il sospetto, la sfiducia, la presunzione di disonestà non sono inevitabili, né da parte degli operatori né da parte dei pazienti. Chi sospetta riceve sospetto, chi dà fiducia riceve fiducia; non sempre, ma vale la pena tentare.
Chiuderei sottolineando che il tema richiederebbe pagine e pagine che è impossibile scrivere; che oggi l’aumento dell’età media fa sì che molti anziani vogliano gestire di persona, finché è possibile, la propria salute, rendendo non agevole la comunicazione; che la presenza di stranieri complica qualsiasi attitudine dialogante; che il tema del consenso non può essere scisso da quello della privacy; che la concezione antropologica che ci sta via via opprimendo – una concezione gnostica e materialistica insieme –, nel proporsi come agente di ridefinizione e ricostituzione della stessa natura umana, fa degenerare tutto il campo delle umane relazioni.
Ultimissima una postilla: i pazienti, in genere, sanno molto del loro stato di salute; sanno e non dicono, temendo che quel che sanno sia confermato; e sperano che quel che temono sia confutato. Ciò è vero, soprattutto, quando c’è qualcosa di grave all’orizzonte. Non si parte, insomma, da tabulae rasae. Anche questo può essere un bell’ausilio di avvio di un processo positivo. •

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