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Spari a Fontemaggio

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1947: un femminicidio nelle campagne di Monte Leone

Più cammino la Terra di Marca più mi rendo conto di conoscerla poco.
Ci rifletto mentre imbocco il bivio che da Servigliano porta a Belmonte Piceno. Sul crinale, c’è l’indicazione per Monte Leone. Due cucuzzoli più in là, si nota la chiesa campestre di Santa Lucia. Mi attrae. Ci arrivo. È piccola. L’usura dal tempo ha graffiato le mura esterne. Un Comitato di residenti ha riproposto la festa del 13 dicembre; a maggio, il vicinato vi recita il rosario. C’è un altro luogo che mi incuriosisce: Contrada Fontemaggio. Amo le fonti e le loro storie. Vado.
Alcuni agricoltori mi indicano uno stradellino bianco che è la vecchia strada vicinale. È quasi tutta in pianura sino alla fonte che, dicono, sia antica. Dimenticata lo è certamente, e quasi completamente sommersa dalla vegetazione. Resta la toponomastica a futura memoria.
Il sentiero si fa più stretto e più intricato. Non si va avanti. Risalgo, un poco sfiorando le belle vigne geometriche dell’azienda Dezi.
Il sentiero lo sistemarono anni fa quando ancora c’era vita in campagna. Ora, a dominare sono solo i rovi e le piante cadute. Mi accompagnano Luigi, che fa l’ingegnere, e Giorgio, che è in pensione anche se un agricoltore non è mai pensionato. Stava potando gli ulivi. Lui è un artista. La sua potatura è particolare: quasi un ventaglio. Maestro fu suo padre, niente a che vedere con i corsi professionali.
È lui a indicarmi un casale sulla collina verso Curetta. «Lo abitavano quindici persone. Non c’è più nessuno». Luigi invece guarda le querce. Sta combattendo una dura battaglia: contro le edere che stanno soffocando gli alberi, «restano fuori i rami più alti, come a voler sfuggire in qualche modo alla stretta mortale».
Mentre parliamo, cinque caprioli scorrazzano per il verde intenso. Si fermano a guardarci: hanno annusato l’aria. Poi riprendono la corsa. Dritti, ben distanziati, i ciliegi coprono un bella porzione di terreno. Li piantarono per il legno e non per i frutti. Per i mobili. Ma ora è tutto Ikea.
La parte opposta è occupata invece da decine di piccioni a terra. Sembrano chiazze nere che punteggiano la terra chiara.
Siamo quasi arrivati. Si sentono le rane gracidare. È un pezzo che non mi capitava.
«Qui c’erano le vasche. I bambini e gli anziani vi portavano gli animali ad abbeverarsi. Era un gioco ed un impegno».
Gino si gira un po’ e indica più a monte. «E lì c’era la fonte». In effetti qualcosa ancora c’è: un cubo di mattoni e uno sportellino in ferro arrugginito. «Non era così 70 anni fa. La fonte…».
Avverto una incertezza nel suo dire. «Era una fonte ricca. Le donne arrivavano con la brocca in testa acquistata da lu coccià di Piane di Falerone e con il secchio pieno di erbe da lavare». Però qui accadde anche altro.
Stava in alto, il giovane. Più in alto delle donne intente al lavatoio. Estrasse la pistola. Sparò. Colpì a morte la sua ragazza. Poi rivolse l’arma contro se stesso. L’esplosione dei colpi richiamò i contadini. Le urla si levarono tragiche. Non c’erano barelle né eliambulanze a quel tempo. Presero i corpi, li posero su delle sedie, corsero a casa per prestare… Fu tutto vano. Non era più tempo. Dino aveva ucciso Paola. E si era ucciso. Era il 14 marzo 1947. •

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