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Quale progetto educativo?

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Educare i nostri figli se le loro star dicono il contrario di noi?

“Dobbiamo lanciare l’anno prossimo un grande progetto di educazione civica digitale che coinvolga le istituzioni, il ministero, le aziende, i social media, rivolto al mondo della scuola”. Così ha auspicato la Presidentessa della Camera a margine di un convegno su come riconoscere nella rete le false notizie, dette anche fake news o, più all’italiana, “bufale”.
La proposta è interessante. Tuttavia, arrivare a riconoscere le false notizie può non essere un obiettivo sufficiente per attivare un costoso piano nazionale di educazione civica digitale, dove, tra l’altro, può insidiarsi un pensiero unico asservito al potere dominante, ai suoi sostenitori o, magari, a gruppi minoritari che fanno la voce grossa. Prima di accollare nuove tasse agli esausti contribuenti e l’ennesimo collegio-docenti-con-esperti a burocratizzati insegnanti, è opportuno riflettere su cosa possa significare un progetto di educazione civica digitale.
Anzitutto bisogna dire che andare nelle scuole non è come andare in fabbrica ad insegnare come si usa una macchina; non è scendere dal monte ministeriale come Mosè dal Sinai con nuove tavole della Legge che dicano come comportarsi in rete; non è nemmeno offrire competenze tecnologiche.
Andare nelle scuole significa entrare come un sondino nel cuore della cultura digitale che irrora i vasi sanguigni delle nuove generazioni; e, prima ancora, significa avere il coraggio di capire perché molti, troppi progetti scolastici e per esempio quelli di prevenzione, rimangono poco più di onerose buone intenzioni.
Alcuni esempi. Nelle scuole, da anni si chiamano esperti a parlare contro la droga e le poli-dipendenze da alcol e sostanze psicotrope mentre, contemporaneamente, negli smartphone di ragazzi e ragazze ma anche di bambini e bambine, centinaia di personaggi dicono e cantano l’esatto contrario e molto meglio che in una noiosa conferenza, con una credibilità che il silenzio degli adulti ha fatto diventare pressoché assoluta.
Se si vuole fare educazione civica digitale occorre affrontare di petto quanto le web-star stanno raccontando in tema di droga, alcol e sesso precoce. Proviamo a vedere ed ascoltare video da 700 milioni di visualizzazioni come We can’t stop di Miley Cyrus, ma anche Fumo di Clementino o Ulalala di Achille Lauro: vedremmo come, in pochi minuti, possono andare in fumo milioni di Euro di investimenti didattici, con il risultato che ogni anno aumentano vertiginosamente i 15enni che usano cannabis (il 27%), quelli che usano eroina (il 2%) i 13enni che si sbronzano e le ragazzine sempre più bambine che si sentono culturalmente costrette ad attività sessuali per essere accettate dal gruppo dei coetanei.
Parimenti, nelle scuole si chiamano esperti della Polizia postale, psicologi e psicoterapeuti per mettere in guardia dai pericoli connessi all’invio di foto e video nelle chat da parte dei minori; nel mentre, ed in maniera certo più piacevole, in “Vorrei ma non posto” Fedez e J-Ax cantano: “È nata nel Duemila e ti ha detto nel 98. E che i diciotto li compie ad agosto. Mentre guardi quei selfie che ti manda di nascosto. E pensi, purtroppo, vorrei ma non posto”; il che, parafrasato, significa: una ragazzina di 16 anni finge di averne 18 e manda di nascosto via smartphone le sue foto e, chi le riceve, le guarda e pensa: “Purtroppo, vorrei ma non posto”. Ecco, un grande progetto di educazione civica digitale dovrebbe anzitutto portare a chiedersi: cosa significa “purtroppo, vorrei, ma…” detto da un adulto che riceve foto da una 16enne? E cosa significa se viene cantato in un video che ha 140 milioni di visualizzazioni su YouTube?
Le domande, non retoriche a risposta preconfezionata ma sinceramente orientate a capire,  vanno poste in tutta la loro brutalità, senza sconti e senza paure affinché alle nuove generazioni possa essere offerta una lettura coerente della realtà, anche quella digitale.
Altrimenti dovremmo rassegnarci a veder fallire sempre più progetti educativi scolastici, cosa di cui, prima o poi, i nostri figli ci chiameranno a rispondere. •

Marco Brusati

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