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I riti del Solstizio d’estate

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Al solstizio d’estate, al 21 Giugno comincia l’estate. Tale giorno era considerato sacro nelle tradizioni precristiane ed ancora oggi viene celebrato dalla religiosità popolare con una festa che cade qualche giorno dopo il solstizio, il ventiquattro giugno, quando nel calendario liturgico della Chiesa latina si ricorda la natività di San Giovanni Battista.  Ed anche in questa festa convergono i riti precristiani esaltanti i poteri della luce e del fuoco, delle acque e della terra feconda di erbe, di messi e di fiori. Nella notte della vigilia di San Giovanni, la notte più breve dell’anno, in tutte le campagne del Nord Europa, l’attesa del sorgere del sole era ed è propiziata dai falò accesi sulle colline e sui monti, poiché da sempre, con il fuoco, si mettono in fuga le tenebre e con esse gli spiriti maligni, le streghe e i demoni vaganti nel cielo. Attorno ai fuochi si danzava e si cantava, e nella notte magica avvenivano prodigi. Le acque trovavano voci e parole cristalline, le fiamme disegnavano nell’aria scura promesse d’amore e di fortuna, ed il Male si dissolveva. Nella veglia, tra la notte e l’alba, i fiori bagnati di rugiada brillavano come segnali; allo spuntar del sole si sceglievano e raccoglievano in mazzi per essere benedetti in chiesa dal sacerdote. Bagnarsi nella rugiada o lavarsene almeno gli occhi al ritorno della luce era per i fedeli cristiani un gesto di purificazione prima di partecipare ai riti in chiesa.  La rugiada ricordava il battesimo impartito dal Battista nel Giordano, le erbe dei prati e dei boschi riproponevano l’austera penitenza di Giovanni nel deserto prima della sua missione di precursore del Messia. Fino a non pochi decenni fa, nell’alto maceratese, nelle campagne c’era chi si rotolava nudo al mattino presto sui campi ancora bagnati dalla rugiada della notte o si immergeva nelle acque dei fiumi ancora trasparenti, “per acquisire quei poteri che guariscono i mali e fortificano le membra”. Anche nella Brianza contadina di ottant’anni fa, il mese di Giugno era consacrato alla festa di San Giovanni, alle erbe dei prati, ai poteri curativi dell’acqua; tanti sono i proverbi, da farne quasi una piccola antologia: “A San Giovann, se regoeuj la camamella per tutt l’ann” (A San Giovanni, si raccoglie la camomilla per tutto l’anno), “Cont l’acqua e l’erba di praa, se cura tucc i maa” (Con l’acqua e l’erba dei prati, si cura tutti i mali); “Acqua e praa… e ‘l speziée l’è faa” (Acqua e prato ed il farmacista è fatto).

I fiori di San Giovanni
I fiori di San Giovanni sono diversi a secondo delle latitudini: l’artemisia, l’arnica, le bacche rosso fuoco del ribes, la verbena, l’erica, la pianticella sottile. L’erica è un fiore delle nevi e dei terreni poveri ed ostili. I fiori dell’erica, che vanno dal bianco alle varie tonalità di rosa, assomigliano, rovesciati, ai copricapi degli elfi. Della stessa famiglia dell’erica è un’altra pianticella, detta brugo, da “brucus”, termine tardolatino di origine celtica, da cui deriva il termine brughiera, poiché in questa terra povera e arida la pianticella riesce a vivere meglio che in altre, coprendo immense distese. L’erica, dal nome più romantico, era tenuta in grande considerazione fin dall’antichità, tanto da essere utilizzata per costruire le scope che sarebbero servite per pulire i templi degli Dei, e successivamente, in tempi più severi, il forno dove cuocere il pane. L’utilizzo dell’erica per costruire scope era così diffuso che, in alcune regioni, l’erica stessa viene chiamata scopa e ancora oggi, alcune località soprattutto della Toscana, dove l’erica ricopre a distesa campi e colline, vengono chiamate Scopeto, Poggio delle Scope. E l’erica è posta a guardia del solstizio d’estate, periodo nel quale raggiunge la fioritura più completa.
E ancora è tipico della notte di San Giovanni, il raro, misterioso fiore della felce che cresce nella notte magica, e si dice fiorisca a mezzanotte. Un altro fiore, questo facilmente rintracciabile e che appare d’oro anche ad occhio nudo, è legato nella memoria popolare al solstizio d’estate. La densità della sua fioritura è tale da risaltare sulle grandi distese, come una gran macchia di colore giallo oro misto a rame; i fiori infatti, così numerosi e brillanti, durano poco, un giorno soltanto, e subito appassiscono e assumono un colore rosso ruggine. Si tratta dell’iperico, un fiore dei campi che è detto erba di San Giovanni, perché anticamente chi si trovava per strada la notte della vigilia, quando le streghe si recavano a frotte verso il luogo del convegno annuale, se ne proteggeva infilandoselo sotto la camicia insieme con altre erbe, dall’aglio, all’artemisia, alla ruta. C’era chi favoleggiava di incontri notturni ai crocicchi delle vie con le misteriose streghe che attraversavano le campagne sull’ora di mezzanotte. Contadini appoggiati a forconi di legno aspettavano impazienti l’arrivo di queste misteriose visitatrici. Tra tutte le erbe che avevano poteri quasi magici c’era l’erba della Madonna. Cresceva spontanea nei campi, sul limitare dei fossati, su porzioni di terreno non coltivato, ma anche tra il grano, quando non si usavano ancora diserbanti e pesticidi. Con l’infuso dell’erba della Madonna ci si lavava il viso; aveva i molti poteri magici, tra tutti allontanava “l’occhio cattivo”.
Un’altra tradizione legata alla festa di San Giovanni era quella dell’albume di un uovo che veniva messo nel bicchiere alla vigilia della festa e posto sul davanzale. Rimaneva lì sino all’alba. L’albume stagnante, raggrumato, assumeva figurazioni diverse e molteplici erano le interpretazioni che esse suggerivano attorno ai problemi della vita: salute, benessere, buon raccolto. Questa tradizione era in voga nell’alto maceratese, ma anche nel vicino Abruzzo, in provincia dell’Aquila, attorno ai paesi di Vittorito- Popoli. Anche gli alberi da frutto partecipavano alla festa del santo. Se le albicocche non erano ancora mature, le mele di San Giovanni, si offrivano al palato bianche e piccole, dal sapore un po’ acre, ma si mangiavano; erano i primi frutti della stagione. •

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