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Lo mète, lo radunà, lo vatte: Memorie di un piccolo mondo antico

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Biondeggiavano le spighe di grano nella campagna inondata dal sole. I campi, punteggiati qua e là da papaveri e fiordalisi, disegnavano uno scenario incancellabile dal gran serbatoio della memoria. La scuola giungeva al suo termine e per i ragazzi si aprivano tre lunghi mesi estivi. Gianni osservava i preparativi in casa per la mietitura del frumento. Questa, prima che apparissero le più moderne mieti legatrici o le attuali mietitrebbiatrici, veniva fatta tutta a mano, con la falce, munita di un archetto, usata in posizione eretta con movimento rotatorio del corpo o nei pendii più scoscesi, con la “falcetta”, rispettivamente “la missura” e “lo scighès” delle campagne brianzole. Cambiano solo i termini dialettali, ma l’operazione avveniva allo stesso modo.
I tempi, quelli sì, sono diversi. Da noi, falciatrici meccaniche adattate all’uso, mietilegatrici e mietitrebbie hanno fatto la loro comparsa molto tempo dopo. Il lavoro manuale invece era lo stesso. S’iniziava di buon mattino, quando il sole di fine giugno era già alto. Gli uomini, divisi in più squadre, si allineavano all’inizio del campo e procedevano appaiati, dietro venivano le donne con il compito di legare “le cove”, i covoni di grano, dopo aver fatto “lu varzu”, più steli di grano messi insieme. La fatica, il caldo, consigliavano di tanto in tanto il giusto riposo sotto l’ombra di qualche albero. La “vergara”, cesto in testa contenente “lu ciammellottu”, dolce fatto in casa, pane, ciauscolo, la “trufa”, la brocca di vino in una mano, nell’altra quella dell’acqua con pezzi di limone per smorzare di più la sete, depositava il tutto sopra una candida tovaglia e si mangiava. Prima di sedersi, gambe acciambellate e accovacciate in terra, occorreva scegliersi un proprio “desco”, dopo aver schiacciato opportunamente le stoppie perché non pungessero troppo, ma erano piccoli dettagli ai quali non si faceva caso, importante era rifocillarsi, per riprendere poi il lavoro con più lena.
Gianni non ha l’età anagrafica per ricordarlo, perché è un’usanza scomparsa con l’avvento della prima meccanizzazione agricola. Gli raccontava suo papà, che spesso per sentire meno la fatica ed anche per dare quasi un ritmo al lavoro, i mietitori usavano intonare delle canzoni che sono entrate a far parte del nostro repertorio popolare: “Se vo’ che te lo mèta lo grà tua,/ famme lu varzu e lègame la coa; / se vo’ che te lo mèta accantu terra; / porta la trufa e la patrona bella; / se vo’ che te lo mèta sotta sotta, / porta lo vino e la vergara ghiotta”. L’avvento della falciatrice meccanica, dotata di barra portalame o pettine, usata per falciare l’erba e adattata per mietere il frumento, limitava di molto il lavoro manuale.
Il mezzo veniva trainato dalle mucche, “le vacche” dai nomi più romantici, “Cimarè”, “Palomma”, ‘Nnammurà”, che procedevano con andatura costante, né troppo lentamente, né troppo veloci per non spezzare il bastone di legno fissato trasversalmente ai coltelli, mosso da una biella con movimento rotatorio, posta all’inizio delle lame.
Su un seggiolino di ferro sistemato nel mezzo della falciatrice, un operatore guidava le mucche; su uno accanto, posto a destra del mezzo, proprio sopra la ruota destra, un altro contadino controllava l’operazione della mietitura e quando notava che su una piccola rastrelliera di legno fissata dietro alla barra portalame, si erano ammassati più steli di grano, schiacciava con un piede una piccola leva.
Il gesto, sollevando la rastrelliera, lasciava cadere sul terreno, ad intervalli regolari, le cove sciolte. Si chiamavano “le pecorelle”, forse perché a guardarle da lontano somigliavano quasi a un piccolo gregge di pecore disseminate per la campagna. Avevano un linguaggio poetico i nostri contadini di una volta. Sì, a guardarli da lontano, su una delle tante colline che disegnavano e disegnano tuttora il paesaggio marchigiano, i covoni sparsi per i campi sembravano simili ad un gregge di pecore accovacciate nei campi. L’introduzione del trattore impiegato come traino della falciatrice, accelerava di molto l’operazione. L’attenzione maggiore era posta nella guida del nuovo mezzo che doveva procedere con passo regolare, una brusca accelerata per superare un pendio o un avvallamento, avrebbe spezzato irrimediabilmente il bastone di legno e fatto perdere del tempo prezioso per ripararlo.
Il lavoro d’altri uomini, ma più delle donne che venivano dietro alla falciatrice, consisteva nel legare i covoni ed ammassarli assieme, per farne “li cavallitti”, mucchi di venticinque covoni di grano, incrociati sei per sei su quattro file, più uno a formare il pennone, con le spighe di grano rivolte verso il basso; in caso di pioggia, l’acqua scivolava via senza danneggiare il raccolto. Rimanevano nei campi, dieci giorni circa. Anche nella scelta del nome da dare alle cose, erano artisti i contadini di una volta. Quei covoni di grano ammassati nei campi, sembravano a chi li avesse osservati da lontano, dei bizzarri cavalli pronti a lanciarsi in una pazza corsa. “Scafèt” invece era il termine dialettale brianzolo con il quale i contadini della Brianza chiamavano quest’ammasso di covoni nei campi.
Falciafienaie, falcette, falciatrici meccaniche scomparvero con l’avvento delle mietilegatrici trainate dal trattore, che facevano contemporaneamente le due azioni del mietere e del legare. Ebbero una vita relativamente breve perché si rompevano spesso, non legavano bene i covoni di grano e furono soppiantate dalle più moderne mietitrebbie esistenti tuttora, che in un’unica operazione fanno quello che un tempo richiedeva settimane di duro lavoro.
“LO RADUNA'”
Dopo la pioggia “de li cavallitti”, la si attendeva con gratitudine e puntualmente arrivava quasi sempre, venivano i giorni “de lo radunà”. I covoni venivano portati sull’aia, a formare “lu varcò”, la bica di grano ammassato, pronto per le trebbiatura. Era allora un andirivieni continuo di “birocci” e “biroccette” che facevano la spola tra l’aia della casa colonica e la campagna. Erano trainati dalle mucche dai nomi più romantici: “Palomma”, “’Nnammurà”, “Cimare”, “Garbatì”. Le bestie, gli attrezzi da lavoro, i protagonisti di allora riposano in mille angoli della memoria personale e collettiva. “Tutti dormono, dormono sulla collina”. Tanti sono i fiumi della nostra Regione e tante le colline accarezzate dal vento. Non una ma nemmeno cento Spoon River basterebbero a raccogliere le loro voci. Nell’aia, “lu varcò” veniva su come per incanto. Al termine del lavoro, veniva issata sul pennone più alto della bica, una croce. La sua preparazione era quasi un rito. Si prendevano due canne, si pulivano, si legavano assieme a formare una croce, all’estremità veniva infilzata una palma benedetta d’olivo con tre chicchi di sale ed il tutto veniva fatto benedire il giorno di Santa Croce. Aveva il potere di allontanare la grandine.

“LO VATTE” – ERANO I GIORNI DELLA TREBBIATURA
I macchinisti mettevano diverse ore per “impostare” la trebbiatrice. Le quattro ruote venivano quasi interrate e bloccate con grossi ceppi. Meno lavoro richiedeva la “posizionatura” della scala per “lu paglià” della paglia e per quello della pula. La trebbiatrice doveva rispondere a tutte le sollecitazioni delle sue parti meccaniche: cinghie, volani, setacci e battitore, organo ruotante quest’ultimo cuore della macchina stessa. Sistemavano la lunga scala posta a ridosso dell’enorme bocca dove fuoriuscivano gli steli di grano ridotti a paglia o a pula, che salivano a formare il pagliaio o “lu pulà”, mucchi di paglia o pula che mischiate assieme a piante foraggiere o al fieno (“lu paglià de la mestica”) servivano di alimentazione per le mucche nelle stalle. Il trattore veniva sistemato a debita distanza dalla trebbia, una grossa cinghia legava l’albero motore posto dietro alla trattrice al volano della macchina, attraverso altre cinghie, bielle, volani, il movimento veniva trasmesso ad altre parti della trebbiatrice. L’inizio dei lavori veniva aperto da un fischio prolungato della sirena. In un turbinio di polvere, la fase vera e propria de “lo vatte” aveva inizio. I covoni venivano passati a forza di braccia, prima dell’avvento dello “‘imboccatore”, dentro il “battitore” sistemato nella parte superiore della trebbiatrice. Bastava un nonnulla per scivolare e perdere l’equilibrio, in questo caso le disgrazie non si contavano; un balzo felino del macchinista sul trattore a togliere il gas dell’acceleratore, un colpo di mano ben dato alla lunga cinghia che trasmetteva il movimento alla macchina e tutto si bloccava, ma erano attimi di terrore. Ripreso il lavoro, i covoni di grano venivano lanciati dai contadini sistemati sul “barcone” a quelli sopra la macchina, questi li scaraventavano di nuovo all’interno del battitore. Il grano fuoriusciva nella parte anteriore della macchina. Qui vigilavano attenti “lu vergà” e “lu fattò”; ognuno controllava l’altro. Il grano veniva raccolto nei sacchi di iuta o di canapa. Il sacco veniva afferrato saldamente con le due mani, un colpo per portarlo al ginocchio, da qui, con un altro movimento rapido, alla spalla. Era una gara tra gli uomini più robusti a portarlo in spalla, un quintale alla volta, su per le scale fino alla soffitta della casa colonica. L’arsura era tanta. Veniva spenta dal vino e dall’acqua portati in cima alle scale, all’opere, da “frichi” e “friche”. Sui pagliai della pula e della paglia si alternavano le “opere”, i contadini venuti dalle vicine case coloniche secondo l’antica usanza de “lu raiudu”; oggi a me, domani a te, si valutava soltanto quanto era grande “l’ara”, gli ettari del terreno, per decidere quante “opere” si sarebbero dovute dare, in cambio dell’aiuto ricevuto, ma si peccava sempre per eccesso, mai per difetto. Era un’usanza diffusa anche nelle campagne brianzole; anche in quest’occasione, tra i contadini, vigeva il detto: “Sem al mund per wutas”. Siamo al mondo per aiutarci e quando per il contadino arrivava il giorno della trebbiatura del frumento, giungevano altri “paisàn” (contadini) dalle cascine vicine, per prestare la loro opera, tanto erano sicuri che quando fosse toccato a loro trebbiare, avrebbero avuto tante braccia, quante quelle che avevano prestato. Questa sì che è una cultura scomparsa, lassù, come qui, perché l’individualismo esasperato, la sete di guadagno ha portato alla furbizia e uno che non è più furbo del proprio vicino, non può essere considerato tale. Non è una gran cultura. È una decadenza. Meglio l’ingenuità e l’onestà di una volta, ma così va il mondo. Durava più ore la trebbiatura del frumento. L’aia era gremita di persone che si avvicendavano su “lu varcò”, “lu paglià”. Si mangiava più volte e bene nel corso del lavoro, quello che la vergara aveva allevato per tutto l’anno: capponi, papere, oche, galline, il tutto innaffiato dal buon vino. La tavolata più affollata era al termine della battitura, con tutte le opere presenti, mentre i macchinisti e il fattore mangiavano a parte.
Nei giorni della trebbiatura era un andirivieni continuo di bisognosi, tra questi, il frate addetto all’elemosina, detto “lu frate cercatò”. Si avvicinava nei pressi della pesa. Aveva in consegna dal contadino diverse sessole (Recipiente di legno usato come unità di misura) di grano, più di quanto era nelle sue possibilità. Era consuetudine assai diffusa nelle nostre campagne donare a piene mani quello che la natura dava. Generosità, umiltà e parsimonia erano i valori legati alla vita dei campi.
A trebbiatura avvenuta, arrivavano il conte e la consorte, proprietari del fondo. Vestivano in modo elegante; per l’occasione non disdegnavano di mischiarsi, anche se per poco, tra la gente del popolo, bevendo e assaggiando quello che era loro offerto: vino, fette di “ciammellotto”, un dolce povero, ma dall’alto potere calorico e quant’altro la vergara aveva preparato. Se si fermavano, mangiavano però a parte, su una tavola ben imbandita, con tovaglie bianche, le migliori che c’erano in casa. Con loro si fermavano a mangiare, i macchinisti, gli operai addetti alle macchine. Le “opere” mangiavano tutte assieme. Il lavoro era tanto, nel corso della trebbiatura era consuetudine mangiare più volte. Se la trebbiatura aveva inizio di notte, alle prime luci dell’alba, si passava il caffè d’orzo, seguiva “lu mocconcellu”: salame, pane, fette di “ciammellotto”, vino; perché tutti potessero mangiare, ci si dava il cambio con le squadre di “opere” che erano a terra. •

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