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Informare è formare

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“Informazione e comunicazione sono due necessità assolute per la vita della Chiesa e per la condivisione del patrimonio culturale, sociale e spirituale che le è proprio” (Cfr. Nota Pastorale n° 4, La Carità del Vangelo, pag. 65, Scheda n° 12, Arcidiocesi di Fermo, ottobre 2008).
Informazione è un termine che proviene dal latino informatio. Significa idea, rappresentazione, ma anche istruzione, formazione, educazione. Il termine Informatio a sua volta deriva dal latino informare, cioè dare forma. I significati latini si conservarono a lungo nell’Italiano colto e letterario. Dante usava la parola “informazione” nel senso di formazione, l’atto del dare forma, del modellare. Già nel Trecento al significato di formazione si affianca quello d’istruzione. Col tempo la parola ha assunto il valore di dare e ricevere notizie. Nella nostra società l’informazione non è più legata alla semplice notizia ma anche a tutto il sistema di produzione, diffusione e vendita delle notizie, attraverso i mezzi di comunicazione di massa: stampa, editoria, radio e televisione.
Il vocabolo “comunicazione” deriva sempre dal latino communicare, mettere in comune; propriamente chi compie il suo dovere con gli altri, composto di cum insieme e munus ufficio, incarico, dovere, funzione. Consapevole delle proprie responsabilità e forte del proprio ruolo, la comunicazione è un’espressione sociale, un mettere un valore al servizio di qualcuno o qualcosa fuori da sé. Non basta pronunciare, scrivere o disegnare per comunicare; la comunicazione avviene quando arriva, quando l’espressione è compresa e diventa patrimonio comune per la costruzione di una discussione, di un sapere, di una cultura.
La parola “cultura” deriva dal verbo latino colere con il significato di curare o coltivare, da cui cultus, come in cultus deorum e cultus agri, locuzione quest’ultima, divenuta in seguito cultura agri, agricoltura. C’è l’agricoltura, coltura del campo, ma c’è anche la cultura dell’animo Cultus animi di Cicerone, con il quale termine si intende la coltivazione, la cura dell’animo attraverso la conoscenza del vero e del bello.
La chiesa universale ma anche quella fermana ha un proprio patrimonio culturale, sociale e spirituale che una volta conosciuto va condiviso. Fare informazione è mettersi a servizio degli altri, è una delle tante diaconie che qualsiasi fedele può e deve fare sua. Nel corso dei secoli, la chiesa ha assolto spesso la funzione di sussidiarietà rispetto allo stato, nell’ambito dell’assistenza ai bisognosi. Basti pensare alle Domus Hospitalis, antesignane degli ospedali. Oggi più che mai il cristiano si trova in prima linea a promuovere e sostenere progetti di accoglienza e d’integrazione di migranti che fuggono dalle persecuzioni e dalle guerre. La Caritas Diocesana sta accumulando nel tempo un patrimonio d’iniziative e proposte che vanno in questa direzione.
L’Unità Pastorale San Pietro-Cristo Re di Civitanova Marche e la Caritas Diocesana hanno proposto incontri durante lo scorso anno pastorale per formare quanti si dedicano al servizio dei più bisognosi, tra i quali non ci sono solo i migranti ma anche italiani che vivono situazioni di disagio. La conferenza di lunedì 16 gennaio 2017 presso il salone di via del Timone, presenti gli operatori Caritas e don Virginio Colmegna, fondatore e direttore della “Casa della Carità Angelo Ambriani” di Crescenzago (MI) è servita per condividere esperienze nate in contesti diversi, dare libero corso ai sogni di quanti operano nella casa della carità “Don Lino Ramini”, inaugurata sabato 28 maggio 2016, alla presenza del vescovo mons. Luigi Conti e delle autorità cittadine.
Oggi non bastano più un posto letto e un piatto di minestra. Offendono la dignità della persona. Occorre ripartire dal basso e rimettere al centro le storie delle persone, come fa don Antonio Loffredo a Napoli, nel rione Sanità, don Nandino Capovilla a Mestre o don Giovanni Nicolini a Bologna, don Vinicio Albanesi nella comunità di Capodarco. Il modo di uscire dall’emergenza è partire dalla nostra quotidianità e sollecitare le Istituzioni. Se non si riesce a dare una vita dignitosa ai più fragili, è a rischio la vita democratica dei nostri paesi e questo vale per l’Europa intera percorsa da egoismi nazionali e da venti d’intolleranza che sono ritornati a soffiare impetuosi. Questo non vuol dire che l’Europa non debba difendersi dagli attacchi terroristici perpetrati da coloro che, confondendosi tra i profughi, portano morte nelle nostre piazze e nei nostri luoghi di ritrovo e del tempo libero.
Difesa e politiche di accoglienza devono andare di pari passo.
L’accoglienza, la condivisione della fragilità è un dono che ci viene fatto dalle circostanze presenti perché la chiesa diventi povera tra i poveri, ha detto don Virginio Colmegna. Scegliere di stare dalla parte dei poveri è una categoria teologica. Avrà pure un senso se adoriamo un bambino che è nato in una mangiatoia e in una delle periferie più lontane dell’impero romano ed è morto come malfattore in croce, in mezzo a due ladroni. La crisi che stiamo vivendo non è solo economica ma è una crisi di umanità. Ne va di mezzo il destino di tutti. La violenza è entrata nel nostro vivere quotidiano. Per tutta l’estate passata, televisione e carta stampata hanno riportato notizie di donne ammazzate da mariti, fidanzati, amanti, compagni. Il sogno di cieli nuovi e terra nuova è l’orizzonte del cristiano. Questo sogno rimanda alla gioia di essere umani, alla voglia di futuro. “Il cristiano è uno che sa spaccare il proprio cuore per farvi entrare il mondo intero” (Thomas Merton).
In un mondo squassato da guerre e da rigurgiti razzisti, occorre dar voce alla profezia della Chiesa. L’ospitalità genera futuro, l’egoismo produce solo paure. Scoprire le povertà degli altri, porta a misurarsi con le proprie. La solidarietà verso chi si trova nel bisogno vuol dire condividere con l’altro il senso del limite. Non siamo onnipotenti ma anche con i nostri limiti possiamo e dobbiamo intravvedere spazi di futuro. La carità ha dentro un pezzo di follia. Dobbiamo restituire alla politica il suo ruolo che è quello di aver cura dell’altro e costruire una cittadinanza aperta. La carità senza giustizia è una truffa, diceva don Milani. Preghiera e contemplazione sono due abiti mentali propri dell’operatore impegnato in gesti di carità, definita come la soglia che sta tra monachesimo e foresteria. La preghiera e la contemplazione vanno coniugate sempre con l’azione, quest’ultima da sola non genera nulla. L’altro non è una persona da cui difendersi come insegna una cultura diffusa, ma è sempre una ricchezza. Questo non vuol dire che non ci debbano essere controlli da parte delle istituzioni per separare chi ha bisogno da chi, tra gli immigrati e profughi, predica e compie gesti di efferata crudeltà.

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