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Seminaristi di Fermo incontrano Mons. Rocco a Matera

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Cordiale, affabile, gentile: Così si è presentato il futuro Arcivescovo di Fermo mostrando anche la sua città natale

A Matera è un posto difficile da descrivere. E’ difficile persino da fotografare. Sfugge alle definizioni, sguscia via tra uno scatto e l’altro, tra parola e parola. Bisogna andarci. Per godere il silenzio assorto, che vibra però di continuo, agitato da una vita sotterranea, come sotterranei sono i Sassi.
Licia Troisi

Quasi cinquecento km, poco meno di cinque ore di viaggio in auto; tanto dista la Cattedrale di Matera, in cui è stato ordinato Presbitero nel 1998, da quella di Fermo di cui prenderà presto possesso il neo-eletto Arcivescovo, Monsignor Rocco Pennacchio. Come già in molti altri casi nella Storia, a guidare l’Arcidiocesi più popolosa delle Marche, lo Spirito Santo ha designato Pastori provenienti da luoghi molto lontani: basti solo citare il fiorentino Giovanni Battista Rinuccini (1625-1653) o, in tempi più recenti, Norberto Perini (1941-1976) nativo di Carpiano, piccolo centro alle porte di Milano e Benito Gennaro Franceschetti (1997-2005) di Provaglio di Iseo, nel bresciano.
Nell’attesa di accogliere Monsignor Pennacchio nella sua nuova Diocesi il 2 Dicembre prossimo, come Seminario abbiamo avuto la gioia di incontrarlo e conoscerlo personalmente nella sua terra, la celebre città dei “Sassi”, Patrimonio dell’Umanità dal 1993 ed incomparabile scrigno di bellezza. Accolti con grande cordialità da Don Rocco – così lo chiamano ancora i suoi parrocchiani di San Pio X, insieme tristi per la sua partenza ma contenti per la sua nomina – abbiamo partecipato alla Liturgia eucaristica e siamo stati poi accompagnati ad uno straordinario balcone panoramico, dal quale si gode una vista mozzafiato della città, che sembra quasi compenetrarsi con la roccia. Monsignor Pennacchio racconta e descrive con grande passione la sua terra con le sue vicende storiche. Ha narrato la vita che si conduceva per secoli all’interno delle tre zone della città storica – il “Sasso caveoso”, il “Sasso barisano” ed in mezzo il rione “Civita”– e quella dei nuovi insediamenti esterni. È un piacere ascoltarlo.
Attorno a noi solo il vento che si abbatte implacabile sull’altipiano roccioso e spoglio, in cui si aprono centinaia di Chiese rupestri ed anfratti in cui dimorarono in età medievale molti eremiti provenienti dall’Oriente. Credo che questo resterà scolpito nella mia memoria come il momento in cui ho conosciuto chi è il nuovo Metropolita di Fermo. Il giorno successivo, dopo aver partecipato ad un incontro di aggiornamento del Clero di Matera – Irsina sulla pastorale giovanile e dopo aver pranzato assieme ai Sacerdoti ed all’Arcivescovo locale, Monsignor Antonio Giuseppe Caiazzo, abbiamo anche avuto la fortuna di fare una visita all’interno dei “Sassi”, accompagnati da uno storico locale, amico di infanzia di Don Rocco. Non bastano le parole per descrivere la meraviglia della Cattedrale, dedicata alla Madonna “della Bruna” e a Sant’Eustachio, che mescola sapientemente il severo romanico pugliese dell’esterno alla ricchezza barocca dell’interno. È impossibile tentare una descrizione di quei vicoli, di quelle profonde case-grotta all’interno della roccia, in cui per secoli i materani hanno vissuto tenacemente, sfidando la durezza delle condizioni ambientali e creando una straordinaria società cosmopolita. Negli anni ’50 lo Stato italiano li invitava ad abbandonare la città antica (“Vergogna d’Italia”) e a trasferirsi nei quartieri di nuova costruzione; per questo motivo al momento solo una esigua parte degli abitanti vive ancora all’interno dei “Sassi”; eppure Matera deve proprio a questa particolare situazione ambientale il proprio inserimento all’interno della lista dei Patrimoni dell’Umanità e la sua elezione a Capitale europea della Cultura 2019.
Mi piace pensare come questo straordinario ambiente e le sue peculiarità abbiano accompagnato i primi passi nella Fede di Monsignor Pennacchio e la sua Vocazione al Sacerdozio, che lo hanno condotto da noi. •

Francesco Capriotti

 

Martedì 24 ottobre, in mattinata abbiamo partecipato all’incontro del clero della diocesi di Matera con don Michele Falabretti, responsabile del servizio nazionale per la pastorale giovanile che, introducendo il sinodo dei giovani che si svolgerà nel 2018, ha fatto una riflessione a largo raggio sul rapporto giovani-preti.
“Sinodo vuol dire camminare insieme e dobbiamo avere fiducia sul fatto che è possibile farlo – ha esordito don Michele -. Il sinodo dei giovani ci aiuta a capire che c’è una questione che appassiona, appunto quella giovanile, e non dobbiamo solo lamentarci ma chiederci il perché. Cosa anima il cuore di un giovane? Noi preti abbiamo avuto una formazione granitica e solida che ci fa credere di essere pronti ad uscire dal seminario. Ma quando inizi a vivere le prime difficoltà ed affrontare le questioni sul campo, scopri che la formazione non finisce mai.
Dobbiamo capire che la nostra formazione non è la formazione dei giovani di oggi. Come ci poniamo davanti a loro? Pensando che noi siamo a posto e che li dobbiamo aggiustare? O con la volontà di portare il Vangelo? Molto spesso abbiamo la tentazione di chi ha tutto in mano e lo deve offrire così com’è, ma la situazione di oggi ci chiede di farci delle domande. Dobbiamo riallacciare il canale comunicativo con i giovani ma non tornando alla fase adolescenziale. L’educazione è una parte importante del nostro ministero. Il vero educatore è chi si fida di una persona volendogli bene così com’è e vuole che sia se stessa. La pastorale giovanile non è un ricettario ma vive dove c’è qualcuno che riesce ad aprire il cuore all’ascolto. I giovani sono libertà in costruzione e noi dobbiamo essergli vicini condividendo il tempo con loro. I giovani hanno un rapporto con il sacro diverso dal modo tradizionale, ma non vuol dire che la ricerca in loro è chiusa. Ci chiedono vicinanza. La sfida allora è uscire per imparare ad abitare il mondo da cristiani. E si fa condividendo la vita degli altri. La pastorale giovanile può generare alla fede e questo può avvenire solo attraverso esperienze di comunità”. •

Marco Zengarini

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