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Il pastore sale in cattedra

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Fermo, 2-12-2017: inizia l’era di mons. Rocco Pennacchio

Nella messa in latino, prima di salire i gradini dell’altare il celebrante diceva: “Introibo ad altare dei”. Si rispondeva: “Ad Deum qui laetificat juventutem meam”.
Oggi non si dicono più queste parole. Forse perchè la gioventù dei celebranti si è ingiallita e appesantita. Non solo dall’età. La venuta a Fermo del nuovo Arcivescovo, Mons. Rocco Pennacchio, ordinato a Matera il 25 novembre, e accolto nella Diocesi fermana il 2 dicembre, potrebbe ridare nuovo vigore ad una chiesa stanca e sfiduciata.
A Matera, negli anni ’60, hanno abbandonato le belle chiese rupestri per edificarne di nuove in quartieri dove abita la gente. Potrebbe essere questa la missione di mons. Pennacchio: aiutare la nostra chiesa fermana a lasciarsi alle spalle una pastorale chiusa, rupestre, idonea per una società che non esiste più. E attivarsi per una chiesa in uscita, dove la gente vive i suoi drammi, le sue solitudini, le sue incoerenze.
Inutile rattristarsi dei tempi che corrono perché non conformi al nostro solito modo di procedere, impigriti da ciò che riteniamo scontato in noi. Occorrerà risvegliare i sensi, incarnarci nella storia, e tendere il desiderio verso ciò che è per sempre. L’essere dono sarà così non un gesto pesante, ma lieve carezza, ombra della potenza di Dio. Scrive Papa Francesco, nella Evangelii gaudium: «Solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. Giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero. Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice. Perché, se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?» (EG 8). Ecco allora tre sfide per noi sacerdoti, ma idonee anche per ogni battezzato.
La prima sfida è essere preti in un mondo diventato plurale. Si avverte che qualcosa si è rotto. Le cose sono velocemente cambiate e non funzionano più come prima. Si vive in un orizzonte di vita molto plurale, diversificato, in continuo movimento.
Tutto cambia, tutto corre, tutto si rimodula continuamente. Si fatica a mantenere una stabilità. Per riprendere una bella espressione di Michael Ende «Siamo andati avanti così rapidamente in tutti questi anni che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci». Cosi, su tutte le questioni, da quelle quotidiane a quelle più largamente esistenziali, si discute, si dibatte, si cambia, si predilige la teoria dei punti di vista rispetto alle visioni oggettive. Tutto rimane infinitamente aperto. Questo panorama invoca una presenza cristiana diversa, capace di aggiornare linguaggi e prassi pastorali che, talvolta, sembrano rimasti prigionieri di una cultura del passato, di un mondo simbolico e sociale che non c’è più. In questa situazione, il prete di oggi deve imparare l’arte di suscitare una fede che sappia provocare l’intelligenza umana, che sappia sfidarla su un terreno umano e razionale, che sia aperta al dialogo e al dubbio e non, invece, una fede che si presenta come una serie di cose da credere ciecamente. Dobbiamo entrare in dialogo per portare il nostro contributo sui significati culturali e lavorare per «la vita buona» che la stessa umanità di Gesù ci mostra. Dobbiamo farlo però imparando a entrare nel dibattito. Ciò impone una nostra revisione degli stili di governo. Mostrando, cioè, a partire dal ministero sacerdotale, il volto di una Chiesa non ostile, non escludente, più affascinata dalla diversità che dalla coerenza. Superando uno stile meramente autoritario, ai preti è richiesto non di imporre il Vangelo ma di entrare in relazione, sostenere il dibattito, lanciare sfide e provocazioni, interrogare criticamente e, soprattutto, esercitare il discernimento delle situazioni reali delle persone, nell’arte di un accompagnamento capace di ascolto, dialogo, attenzione, compassione.
La seconda sfida è essere preti in un mondo indifferente. Il postmoderno ha messo in crisi anche l’ateismo forte, dogmatico, filosofico e politico di qualche decennio fa. Anch’esso, infatti, si mostra troppo violento e troppo totalizzante per l’uomo della postmodernità. Egli ha preferito una nuova forma di assenza di Dio che Jean Vernette ha chiamato il «post-ateismo» in cui si è lentamente passati dal rifiuto all’assenza, dalla battaglia alla dimenticanza, dalla lotta all’apatia.
Sembra quasi un ateismo che si rivolge al campo affettivo ed esistenziale, alle immagini interiori che plasmano le visioni e gli stili di vita, a tutto un mondo che precede i contenuti e l’adesione esplicita.
Spesso, non si tratta di una contestazione di Dio, ma di ciò che viene fatto passare per Dio, cioè di alcune sue immagini idolatriche e anti-umane. Forse l’annuncio della fede è rimasto distante dalla sfera affettiva, esistenziale ed emotiva. Forse, molti dei nostri linguaggi e delle nostre pratiche cristiane, non riescono più a parlare ai desideri, alle speranze, ai sensi dell’uomo.
La fede cristiana continua ad essere percepita come una conoscenza intellettuale, un insieme di pratiche e leggi e non, invece, come una questione di apertura dei sensi, di domande, di stupore, di stili di vita. Ma la fede è – definizione di Michael Paul Gallagher – «un modo che Dio ci ha dato per immaginare la nostra esistenza».
Quale immagine di Dio annunciamo? Quale umanesimo passa nell’annuncio della nostra fede, nei nostri linguaggi, nelle pratiche ecclesiali, nelle forme istituzionali? E nell’immagine di prete?
Nel nostro cristianesimo si sente solo raramente parlare di desiderio, di sentimenti e di sensi, di immaginazione e di gioia. Probabilmente, per difendere la purezza e l’integrità di qualche verità, abbiamo trascurato di mostrare il carattere umano del Vangelo e il potenziale carico di gioia che la rivelazione porta con sé. Il prete, nelle forme dell’annuncio, nella pastorale ma anche nello stile relazionale, deve intercettare le persone laddove esse vivono, nel luogo dove si trova il loro io, in sostanza, con dei nuovi preamboli di fede più esistenziali che dottrinali. Cercando di parlare alle speranze, ai desideri, ai sogni, agli affetti. E mostrando, così, l’umanità «differente» di Gesù.
Terza sfida: essere preti con l’arte della mistagogia. In un tempo plurale e mobile, si può credere solo per scelta. Niente può essere dato più per scontato e occorre prendere atto che gli uomini del nostro tempo non comprendono più la nostra ritualità, i nostri linguaggi ecclesiali, le nostre liturgie o azioni pastorali. Non si tratta solo di trovare modi nuovi di comunicare il Vangelo. Si tratta di riscoprire l’antica arte della mistagogia e intendere così il nostro ministero come un accompagnamento paziente e discreto che lasci emergere la bellezza del cristianesimo e del Vangelo dall’interno delle stesse esperienze umane, dalle domande, dalle crisi. Abbiamo bisogno di preti che, con pazienza, svolgano un ministero di iniziazione: le persone devono essere introdotte nuovamente – e non solo in modo nuovo – alla preghiera, alla vita spirituale, alla liturgia, ai contenuti della fede, oltre i retaggi familiari e culturali di provenienza.
La mistagogia significa, in questo caso, l’arte di risvegliare l’interiorità dell’uomo per portare alla luce ciò che già abita in lui e, magari inconsapevolmente, lo orienta a Dio. Ci sono domande, situazioni, passaggi di vita, stupori, perfino esperienze traumatiche che a volte risvegliano le persone ad un sussulto spirituale. Tale vissuto, spesso non accompagnato, rischia di restare sommerso dalla routine quotidiana. Un compito fondamentale e mistagogico sarebbe quello di aiutare le persone a entrare in contatto con se stesse, aiutandole a riconoscere la grazia di Dio già operante in loro e la potente bellezza che la fede potrebbe offrire ai loro percorsi. In questo modo, il cristianesimo non apparirebbe come una via esterna alla vita quotidiana ma come una promessa, un desiderio, uno spazio di tensione, un invito, una possibilità. D’altra parte, quest’arte maieutica e mistagogica è usata da Gesù con i due discepoli di Emmaus: Gesù non si impone, non inveisce, non formula dogmi, ma «cammina con loro» e si presenta come il pedagogo della loro apertura interiore, che sblocca i loro sensi e la loro immaginazione, risvegliando in loro qualcosa. Un prete può farlo nella prassi omiletica, nella catechesi biblica, nella direzione spirituale soprattutto ma, in generale, in uno stile che non si limita a consegnare la verità ma aiuta a scoprirla e a scoprirne le ragioni profondamente umane.
Al nostro Arcivescovo Rocco, a tutti noi sacerdoti, alle religiose e religiosi, al popolo di Dio un augurio con le parole del cardinal Martini: «La Parola fa frutto a suo tempo. Bisogna avere fiducia, perché la parola seminata va avanti da sola. Buttatela quindi con coraggio, non tenetevi indietro dicendo che il terreno non va e bisogna aspettare condizioni migliori, non crediate di essere voi i padroni della parola. Voi spargetela e poi andate pure a dormire; non pensateci più, ed essa da sola porterà frutto». •
(Cfr. Francesco Cosentino (http://www.settimananews.it/ministeri-carismi).

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Direttore de La Voce delle Marche

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