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Tradizioni contadine

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Rumori e colori dell’autunno: la spannocchiatura del granturco.

L’autunno era la stagione durante la quale, accanto ad altri lavori agricoli, avveniva la raccolta del granoturco. Le pannocchie, staccate manualmente una ad una dai fusti “li gammù”, gettate sul “Biroccio”, prendevano la via di casa attraverso stradine e sentieri in terra battuta, che si snodavano tra i campi. I contadino era a cassetta o in piedi sul pianale e con in mano le corde legate alle froge delle mucche aggiogate al carro, dava uno strattone. Le bestie obbedivano al comando e partivano di gran lena. Il lavoro non era per altro faticoso. C’era soltanto da trasportare il carico che per quanto pesante fosse, non era mai come trainare l’aratro inferrato nel terreno pronto per l’aratura.
Nelle discese particolarmente ripide, si poneva mano alla martinicca che bloccava i ceppi sulle ruote del biroccio; quando la strada riprendeva a salire o era pianeggiante la si allentava. Le due corde, tirate secondo la necessità a sinistra o a destra, facevano girare gli animali ed il carico nell’uno o nell’altro senso. Ecco perché i contadini ponevano particolare cura, quando le mucche arrivavano ad un’età da tiro, ad addestrarle davanti all’aia o negli spazi antistanti alla casa colonica. Nella coppia, aggiogata al “biroccio” o alla “biroccetta”, i mezzi più utilizzati per questo tipo di “addestramento formale”, c’era “Palomma” che veniva collocata a sinistra, “Garbatì” a destra o viceversa. I nomi degli animali erano frutto dell’estro romantico di ognuno.
Nel corso di più sedute di lavoro, il contadino scopriva le attitudini delle mucche e non terminava mai di provare e riprovare fino a quando non riusciva ad ottenere una coppia di mucche ben affiatata, capace di obbedire ai comandi. Chi aveva più bestie nelle stalle, ciò era proporzionale alla quantità di terra da lavorare, provvedeva a domare più coppie utilizzate contemporaneamente in più lavori o semplicemente nella “vetta”, quando si aggiogavano anche due coppie di mucche, per tirare l’aratro pesante, munito di ruote, vomere, coltro e versoio.
Il carico di pannocchie veniva scaricato sull’aia, nella cascina brianzola, sotto il portico. I fusti, “li gammù” nel nostro dialetto, “mergasc” in quello brianzolo, venivano successivamente estirpati a mano e liberati dalla terra con un leggero scuotimento, legati in fasci, venivano portati a casa e sistemati sotto il forno. Anche se inadatti, perché bruciati facevano solo tanto fumo e cenere, venivano comunque utilizzati assieme ai rovi, quando c’era da accendere il fuoco del forno per la cottura del pane. Nell’economia agricola di una volta non veniva buttato via nulla, ma tutto riciclato per altri usi.
La spannocchiatura
E veniva il lavoro, meglio il rito della “spannocchiatura” del granoturco, “de lo scartoccià”, “scartozzà” nel fermano, “smarroccatura” in Abruzzo, “Sluà ul furmenton” nelle campagne brianzole. Le pannocchie non ancora liberate dalla sfoglia, venivano ammucchiate a semicerchio sull’aia, facendone quasi un cordone dietro al quale venivano sistemate delle panche per gli operatori, nel mezzo c’era il vuoto. La manodopera conveniva dalle case vicine, obbedendo all’antica usanza de “Lu raiudu”, ci si dava cioè una mano quando la terra e le colture richiedevano una grande disponibilità di forza lavoro, perché tutto veniva fatto a mano. Nelle cascine brianzole c’era il detto “Sem al mund per wütas”. Siamo al mondo per aiutarci.
Il contadino afferrava l’apice della pannocchia, vi infilava trasversalmente un sottile bastoncino in legno, aguzzo all’estremità, apriva le foglie e “scamiciava” la pannocchia. Ecco perché l’operazione, in alcune parti, era anche chiamata “la scamiciatura” del granoturco. Il bastoncino in legno appuntito era legato alla mano da una corda avvolta attorno al polso, questo per dare continuità al lavoro. Il legno utilizzato, nelle campagne brianzole, era preferibilmente quello della siepe martellina, una pianta a crescita lenta che produce un legno difficilmente scheggiabile; nelle nostre campagne si usavano invece le “cacciature de li piantù”, gli alberi secolari di ulivo o di quercia.
Le foglie venivano buttate dietro alle spalle, le pannocchie gettate nel mezzo del cerchio che si andava lentamente riempiendo di altre pannocchie lanciate da cento mani come in una crescente batteria di fuochi pirotecnici. Il lavoro veniva fatto sempre di sera, dopo cena, ecco perché, sia per vincere il sonno, ma anche per alleviare la fatica fisica, veniva accompagnato dai canti, quelli “a batoccu”, i più conosciuti. Si chiamavano così perché, come il battaglio della campana batte una volta da una parte una volta dall’altra, così la voce della donna e quella dell’uomo si rincorrevano in una sorta di botta e risposta.
Le brattee, le foglie, “Scartoss” in termine brianzolo, raccolte e messe ad essiccare, venivano impiegate successivamente per imbottire i materassi, chiamati anche “I pagliericci”. Occorreva trovare subito la posizione giusta sul letto, perché era uno scricchiolare continuo delle foglie, quando anche non pungevano, senza contare la polvere che il materasso così confezionato poteva liberare. A “scartocciatura” avvenuta, la manodopera veniva invitata a mangiare una bella “spianatora” di polenta, preparata dalla vergara da noi, dalla “reggiura” nella cascina brianzola. La spianatura era un enorme tagliere steso sul tavolo. •

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