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Quattordici anni di amore e dolore

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La solitudine ma anche la grande forza di una famiglia capace di creare un cerchio di amore intorno al papà malato di Alzheimer.

Quattordici anni di amore e dolore. Questo, sono stati gli ultimi 14 anni di vita del mio Papà. Quattordici anni in cui abbiamo cambiato equilibri, priorità, abitudini e tempi della nostra famiglia, quattordici anni in cui ci siamo sentiti impotenti e soli di fronte alla malattia, quattordici anni in cui abbiamo compreso il dono prezioso del legame familiare.
Ricordo ancora il giorno in cui il neurologo, senza lasciar spazio a dubbi o incertezze, ci disse che Papà era malato di Alzheimer. Dopo due difficili interventi all’intestino, lo avevamo visto “perdere qualche colpo”. Non ci aveva tranquillizzato la spiegazione sul “normale” decorso post-operatorio e così decidemmo di indagare oltre. La diagnosi fu un pugno allo stomaco, non si è mai preparati ad accettare una malattia che si insinua nella tua vita e nella tua famiglia. Iniziò così l’ultima parte del cammino con Papà, un tratto culminato con la sua morte, l’11 dicembre, un giorno non troppo freddo e illuminato da un pallido sole invernale. Quattordici anni sembrano lunghi da dire, ma sono un soffio nel viverli e comunque un tempo sempre breve per dire addio a chi ami. Ho concentrato in quei “benedetti” 14 anni tanto amore e molti dolori. Tra i tanti dolori, alcuni li sento ancora vivi sulla pelle e nel cuore.
Il dolore di vedere ogni giorno nel volto di Papà i segni di una malattia che divora la mente e inibisce il corpo fino a farlo morire. Un lungo elenco di metamorfosi fisiche e mentali in cui ho visto la vita di un adulto involversi fino a tornare alla dimensione di bambino e poi neonato. Ricordo la forte sensazione d’impotenza di fronte ad una malattia che non ha cura, né freno. Soprattutto i primi anni ho letto, cercato, chiesto, viaggiato per tanti luoghi, per incontrare, però, sempre lo stesso verdetto: ”ci dispiace signora ma non c’è nulla che si possa fare”.
Stare ogni giorno accanto a Papà, sapendo che il giorno dopo sarebbe stato per lui peggiore di quello prima, era come una morsa d’acciaio che mi stringeva la gola e mi faceva mancare il respiro.
Ho visto giorno dopo giorno spegnersi la luce di coraggio e voglia di vivere che era sempre brillata nei suoi occhi. L’ho visto chinare il capo lentamente e abbassare lo sguardo verso terra ogni giorno di più. Il dolore di non riconoscere più in lui mio padre. Il dolore di dover assumere un cambio di ruolo, io da figlia a mamma e lui da padre a figlio. A tutto questo si aggiunge il dolore della solitudine sociale. Di fronte ad una malattia mentale, tutti si tengono alla larga. Quante volte ho sentito dire dai suoi e nostri amici e parenti “vorrei venire a trovarlo, ma mi fa brutto”.
Nei primi tratti della sua malattia quando non riusciva ad essere completamente coerente nei gesti e nelle parole, ho visto anche qualcuno ridere. Di fronte a ciò ho provato un dolore sordo e, non nego, una rabbia impotente. Così come di fronte alla frase ricorrente “non ci sta più con la testa” sentivo salire un urlo di ingiustizia dentro di me. Con Papà ho toccato con mano che i malati di Alzheimer sono coscienti dei luoghi e delle persone, anche se murati dietro alla barriera di incomunicabilità che la malattia crea tra loro e noi cosiddetti “lucidi” per mancanza di termini comuni. Chi perde la propria mente non ha più modo di dirti che cosa vuole, che male ha, se ha freddo o caldo, se ha fame o sete, che ti vuole bene o, semplicemente, se deve fare pipì. Con Papà ho visto le paure prendere il sopravvento sul suo coraggio. Paura di quell’uomo riflesso nello specchio che diventa il suo amico e poi il nemico più acerrimo. Paura di te e del male che pensa potresti fargli perché fragile. Paura degli oggetti, che all’improvviso diventano mostri da combattere. Paura di cadere che lo fa aggrappare a te fino a farti male. Papà era consapevole, soprattutto nei primi anni della malattia, che la sua mente si stava perdendo e che per lui non ci sarebbero più stati né sogni, né futuro, che tutto sarebbe diventato oscuro ed i ricordi finiti nell’oblio. Lui non sapeva, ma sentiva che era così.
L’ho capito dai suoi occhi che spesso si riempivano di lacrime, dalla sua richiesta di non essere lasciato mai solo, dalla sua amata macchina lasciata in garage. Vorrei aprire quello che, per noi, è stato poi il doloroso capitolo della sanità. Premetto che il mio non è un giudizio univoco, so che esiste anche la buona sanità, ottimi medici, infermieri e strutture, semplicemente noi non li abbiamo incontrati. In quattordici anni non abbiamo trovato nessun appoggio, nessun sostegno. Tante visite e tutte a pagamento. Paghi per poter essere almeno guardato e ascoltato e anche a pagamento abbiamo trovato chi si è rifiutato di visitare Papà, facendosi becco del giuramento di curare la vita in tutti i suoi stadi. Il malato di Alzheimer è un peso per la società e per la sanità, non è più nessuno, non ha più diritti, né rispetto. È solo di fronte alla montagna della sua terribile malattia.
Tutti i presidi necessari per questa malattia ce li siamo dovuti comperare, perché la sanità gestita dalla Regione Marche, che a quei tempi si beava di essere tra le poche regioni con i conti in verde, non passava quasi nulla: 3 pannoloni in 24 ore, un materassino antidecubito che se si rompeva prima di un certo numero di mesi non veniva sostituito, una sedia a rotelle senza freni e con un poggiapiedi rotto.
Ecco tutto quello che il servizio sanitario ha offerto a Papà per 14 anni di malattia e dopo 40 anni di contributi versati. Non parliamo poi dei servizi domiciliari, previsti solo per piaghe da decubito, cateteri e sondini. Vogliamo parlare del medico di famiglia e del grande aiuto che offre in queste situazioni? Dolore e dolori in una vasta gamma di colori e sfumature, spalmati in ogni ora, giorno e mese dei quattordici anni.
In tutta questa storia, c’è stato, però anche l’amore, tanto amore. La malattia di Papà ci ha permesso di amarlo ancor di più, di coccolarlo, confortarlo, rassicurarlo, difenderlo in ogni passo che ha compiuto negli oscuri meandri dell’Alzheimer.
Un amore che ci ha permesso di cercare ogni giorno di alleviare i suoi dolori in tutti i modi possibili facendoci carico di tutto ciò di cui aveva bisogno. Un amore che mi ha permesso per 14 anni di dormire quasi nulla, eppure di andare al lavoro ogni giorno e di assisterlo in tutti gli altri momenti, di rinunciare senza alcun rimpianto a ferie e divertimenti, di diventare mamma e dottore, dovendo ogni giorno curarlo e accudirlo decidendo, a volte, anche la terapia necessaria. Un amore che mi faceva essere grata per ogni minuto strappato alla vita e per ogni piccolo successo sulla malattia.
Un amore che ha reso più forte, più unita e più solida la nostra famiglia, mia mamma, mia sorella, mio cognato ed i miei nipoti. Tutti insieme abbiamo creato un cerchio di amore, nella speranza che almeno questo arrivasse oltre la barriera dell’Alzheimer.
Un amore che ci ha permesso di non alzare la voce, di non urlare dietro ai suoi comportamenti sconclusionati, di non ferirlo, umiliarlo, né farlo arrabbiare, perché i malati di Alzheimer hanno bisogno di amore, rassicurazione, sorrisi, abbracci, baci e carezze. Quattordici anni di tutto questo per combattere una malattia durissima. Se ci siamo riusciti non lo sappiamo e non lo sapremo mai.
Abbiamo combattuto la malattia insieme con Papà con la quasi sola arma dell’amore e della famiglia. Dio ci è testimone che ogni errore e ogni debolezza erano dettate comunque dal desiderio di farlo vivere e vivere al meglio. La morte non ha chiuso il difficile cammino della malattia di Papà, ma ha aperto, in me e nella mia famiglia, un tempo diverso fatto di nostalgia, di dubbi, di ricordi, di fotogrammi indelebili del suo volto travolto dal dolore, ma anche un tempo in cui avere più attenzioni reciproche, in cui superare stupide divergenze ed essere grati semplicemente di esserci.
Nel tempo della malattia di Papà abbiamo compreso che una vera famiglia per amore è capace di ogni cosa, sa trovare risorse e forze, sa annullarsi e ricostruirsi attorno a chi ha bisogno. •

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