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Supporto psicologico per chi cura in casa un malato

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L’opinione della psicoterapeuta Silvia Miandro sull’importanza di ‘aiutare chi aiuta’.

Si è sentito parlare di malattia molto spesso negli ultimi tempi, forse anche troppo. Si discute sui sintomi, sulle possibili cure e sulla loro efficacia. Tuttavia, il concetto di malattia è qualcosa che può interessare molti aspetti.
Oltre ad un singolo individuo che mostra dei sintomi negativi per la sua salute, la malattia di una persona influisce anche sulle vite di chi sta intorno al malato, specialmente quando si trattano di malattie oncologiche e degenerative. Nello spiegare al meglio quest’ultimo concetto, abbiamo voluto sentire l’opinione della dottoressa Silvia Miandro, una psicoterapeuta che si occupa prevalentemente di formare dei volontari che offrono il loro servizio in associazioni quali “L’abbraccio” e in diversi hospice.

Quanto può influire il supporto psicologico sulle persone che hanno un parente malato in casa?
Decisamente il supporto psicologico di familiari che hanno un parente malato in casa può essere utile. Utile per trovare uno spazio all’interno del quale poter riconoscere e dare valore a quello che si prova ad essere il marito, la moglie, il figlio, il fratello, il padre, la madre di una persona cara che sta male, di una persona che si vorrebbe aiutare ma di fronte alla quale spesso ci si sente un po’ a disagio perché non si sa bene come aiutarla, un po’ impotenti, un po’ responsabili, un po’ stanchi, in colpa, un po’ frustrati e a volte anche un po’ arrabbiati. Il supporto psicologico può allora servire per portare fuori da sé quello che il familiare vive internamente e che a volte si impedisce di condividere con gli altri per non “appesantirli”. Attraverso il supporto psicologico al familiare si dà la possibilità di prendersi cura di sé “per essere più disponibile” a prendersi cura del proprio caro.

In questi due anni, molte persone hanno avuto a che fare con un familiare costretto a rimanere chiuso in una stanza per evitare eventuali contagi. Parlando proprio del Corona Virus, come hanno vissuto una situazione del genere i pazienti?
Il Covid è stato e continua ad essere un’esperienza che ha messo alla prova non solo i singoli individui ma anche le relazioni tra le persone. C’è chi si è sentito spaventato tanto da chiudersi in casa e da fare fatica e ri-uscire, c’è chi si è sentito impotente e fuori controllo, chi si è sentito molto solo pur stando in famiglia e chi al contrario si è sentito circondato di affetto. L’impatto dunque che il Covid ha avuto sia a livello personale che relazionale è stato del tutto soggettivo. Avendo ascoltato e sostenuto familiari che si sono trovati a vivere in casa con un caro chiuso in una stanza perché positivo al virus, spesso ho sentito dire che paradossalmente “grazie” alla malattia il legame si è rafforzato, molti hanno sperimentato come familiari la mancanza del proprio caro, la frustrazione del non poter avere un contatto fisico e di non potergli “stare vicino” come avrebbero voluto, nonostante fosse nella stanza accanto. Oltre a ciò, sentivano il desiderio di essere di supporto e di prendersi cura dell’altro insieme alla paura che la situazione potesse improvvisamente peggiorare e dunque alla paura di perdere quella persona. Il tempo di malattia è stato utilizzato diverse volte per “ritrovarsi”, per parlarsi di più, per occuparsi dell’altro ed essere attenti alle sue esigenze, per essere più vicini nonostante la distanza fisica imposta dalla malattia.

Immagino che il supporto psicologico vada di pari passo con la situazione del malato. Nel caso del Corona Virus c’è possibilità di guarigione, mentre per le malattie oncologiche spesso i sintomi vanno peggiorando fino alla morte. Dal momento che queste malattie “annunciano” già la prematura morte del malato, i familiari sembrano più pronti alla sua dipartita o si tratta di qualcosa a cui non si è mai preparati abbastanza?
Io, in qualità di psicologa, mi chiedo spesso cosa significhi essere preparati ad un evento così significativo quale può essere la malattia oncologica e la morte di un proprio caro. Sinceramente ancora non ho la risposta! Quello che ho osservato, attraverso il mio lavoro, è che la malattia, più o meno prolungata, può essere vissuta come un tempo di “preparazione” al distacco finale o meno. Quello che dal mio punto di osservazione ho visto fare la differenza è il “come”, sia il familiare che il malato, utilizzano quel tempo che hanno a disposizione. Se il tempo di malattia viene vissuto solo come un tempo di condanna che anticipa e in parte già rappresenta la morte, allora sarà difficile per quella famiglia prepararsi, salutarsi e “accompagnarsi” reciprocamente a separarsi. Se quel tempo viene vissuto anche come “un’opportunità” di dirsi quello che fino a quel momento ci si era trattenuti dal dire e di riconoscersi reciprocamente nell’importanza e nel valore del legame costruito in vita, allora quel tempo può essere non solo “di preparazione” ma anche un tempo prezioso perché autentico, di vicinanza affettiva, di riconoscimento reciproco e dunque un tempo di vita.

Si sono sempre più diffuse associazioni che raccolgono persone accomunate dal bisogno di supporto psicologico. Può essere d’aiuto per una persona far parte di queste associazioni?
In generale, credo che entrare a far parte di associazioni che accolgono e supportano i familiari di persone malate possa essere molto utile. Innanzitutto per essere ascoltati e ascoltare la propria storia e quella degli altri mettendole in condivisione. L’effetto di questo è che le persone si sentono un po’ meno sole rispetto a quello che vivono, a volte un po’ meno “aliene”, più normali. A questo riguardo mi è capitato spesso sentir dire dai familiari che avevano deciso di far parte di un gruppo di sostegno: “Allora non sono l’unico a provare questa cosa, non sono l’unico a sentirmi così inadeguato, a disagio e così sbagliato per non aver detto o fatto questo o quello”. Per qualcuno entrare a far parte di associazioni di supporto significa darsi la possibilità di entrare in contatto e di creare legami con persone che in parte, seppur con sfumature diverse, condividono l’esperienza della malattia e della morte di una persona cara. Dunque ci si può sentire più compresi, meno soli, più liberi di parlare di aspetti che magari le persone all’esterno, che non hanno vissuto questa stessa esperienza, non comprenderebbero fino in fondo; riscoprendo a mano a mano il desiderio di condividere, di conoscere la storia e dunque la vita di altre persone così come di raccontare la propria e perché no, anche di sorridere insieme, nonostante la tristezza e la sofferenza vissute e che ancora si provano.

Nessuna parola, riflessione, pensiero o discorso può dirsi definitivo sul tema della sofferenza. Quello che può allora confortarci è lo stile di condivisione che possiamo mettere in atto. Attraverso questa esperienza ognuno ha la possibilità di maturare una coscienza capace di reggere il colpo e in grado di scoprire un senso autentico dell’esistenza. •

Arianna Fioretti

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