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Contro il turismo necrofilo

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“Nel lutto sono presenti tutti i fattori della mediazione da operare tra individuo e specie: c’è l’individuo morto, c’è la specie che “utilizza” questa morte, ci sono coloro che restano, i quali, essendo in lutto, non appartengono né alla vita né alla morte, ma rappresentano la necessità che l’umanità in lutto ha di non morire coi propri morti mentre prende atto dell’irreparabilità di queste morti”. Francesco Campione, Lutto e Desiderio, Armando, 2012

Qualche settimana fa diversi quotidiani di informazione hanno dato spazio ad un “turismo della disgrazia” che si va imponendo sempre più come tentativo di abitare fisicamente degli spazi che le persone sono abituate a possedere mediaticamente grazie all’occhio televisivo.

Il naufragio della nave Costa Concordia all’Isola del Giglio, si è trasformato così in una occasione di richiamo per turisti e bagnanti perfettamente a proprio agio anche con il relitto della nave sullo sfondo. In quel naufragio, come sappiamo, sono morte diverse persone ed alcune risultano tuttora disperse. Su quegli scogli c’è chi per giorni ha pianto i propri cari, ma la bella stagione ha evidentemente cambiato i volti, le emozioni e le occupazioni dei visitatori dell’isola. Il sentimento del lutto è uno dei più forti. L’elaborazione del lutto appartiene all’uomo comunitario, quello che deve manifestare a chi resta il reale valore della mancanza, l’esatto contorno morale, civile e sentimentale di chi non ritorna. Non vi è solo elaborazione soggettiva o familiare del lutto perché c’è (o vi dovrebbe essere) anche una elaborazione collettiva del lutto e della perdita. Certo, il valore della perdita si costruisce direttamente sulla capacità di assegnare alle persone ed alle cose una dimensione di non sostituibilità.

Oggi tutto ciò appare difficile. Se il sentimento della non-sostituibilità è debole, faccio fatica a costruire eticamente e sentimentalmente l’universo della perdita e delle sue richieste di elaborazione. E se non vi è una piattaforma psico-sociale comune capace di attribuire valore alle forme collettive di elaborazione della perdita, non si può pensare al mantenimento di tali forme solo nelle esperienze dei singoli individui. Chi sa di dover morire, se sa di dover morire “per qualcuno” da alla sua morte un senso che non cessa di riguardare gli altri che restano. In tal modo la scomparsa di una persona non viene letta da chi gli vuole bene solo come una perdita, ma anche come un incremento di senso, e chi viene a mancare se ne andrà convinto di aver affidato e testimoniato agli altri un significato che rende la sua morte per loro sensata e per lui un modo per andare oltre sè. Morire per “qualcuno” morendo per “qualcosa” significa anche poter bilanciare il dolore per la perdita, perché con la sua morte avranno acquisito almeno quanto hanno perso.

Ora, Il morire come incremento di senso, come guadagno per il mondo è pensabile da quella sciagura? Le persone non stavano costruendo nulla per nessuno (il loro tempo era sottratto al lavoro e alla vita normale) e vivevano il divertimento, che è tempo dedicato solo a se stessi. Dunque, con le morti della Concordia vale il discorso sul valore per gli altri del morire che abbiamo accennato? Dove si situa la linea di frattura antropologica che ha divelto la riconoscibilità del morire come edificazione di mondi (la storia Occidentale da sempre ha posto la morte al centro)? Solo pensando che non si è morti invano coloro che si trovano davanti alla morte degli altri, possono superare il senso di colpa di esserci ancora e di non aver potuto fare ne immaginare qualcosa per salvare i loro cari. Ecco l’orrore del morire per niente: il poterla facilmente evitare, il soffio leggero e tremendo della circostanza implacabile (l’abito da sposa troppo pesante che, zuppo d’acqua, trascina via la donna). Non si pensa alla morte in atti quotidiani, neutri, oppure in contesti costruiti per sviluppare appositamente una intensificata circolazione affettiva, apparentemente senza pericolo. L’innocuo contesto che all’improvviso si tinge di tragedia (la crociera, il cancello che travolge il bambino, il fulmine che colpisce l’escursionista) appare nascondere l’orrore sotto i sembianti della normalità, del conforto domestico ed affettivo.

La morte devasta maggiormente quanto più remoto è il suo pensiero. In atti quotidiani neutri, l’irreversibilità degli accadimenti accresce la sproporzione tra dramma e sua ricomposizione; così l’antico morire per qualcuno-qualcosa oggi, nell’enorme moltiplicazione delle azioni possibili, è in balìa del morire per niente. I vincoli di senso a guardia dell’essere, sciolti nei mille rivoli delle occorrenze personali reversibili, mai necessarie ed incrociate, nel morire precipitano nella fatalità crudele ed implacabile, svelando i caduchi presupposti sui quali edificavano le proprie pretese. La morte diluita, filmata, addomesticata, senza l’antidoto della condivisione (cum-dividere, portare ciascuno il proprio peso per toglierne un po’ a tutti), si propone in modo spropositato alla vita di chi ha sempre dovuto percepire se stesso e gli altri dentro una specie di obbligo ad ignorarla culturalmente. Ma che tipo di rapporto hanno gli allegri escursionisti-fotografi del Giglio con il tema del confronto con la “propria” morte? Il problema del confronto con la propria fine si fa ovviamente più serrato man mano che si progredisce negli anni e si passa attraverso le perdite che la vita propone a tutti noi.

Quei visi spensierati, orgogliosamente in posa con sullo sfondo il Transatlantico arenato, sembrano ridisegnare il clima vacanziero sopra la sventura di coloro sono morti assurdamente. Ma questi fotografi distratti, con la loro indifferenza, assegnano alle emozioni solo spazi residuali perchè emozionarsi con distacco vuol dire che ormai esistono degli “Io-Ruolo”che non vivono emotivamente le tensioni tra il come si è e il come si deve essere. L’indifferenza per il dolore degli altri crea una impermeabilità che svilisce il significato ultimo dell’accaduto rendendo impossibile una sua lettura esistenziale. L’Indifferenza è un modo di posizionarsi opportunamente rispetto agli altri, ma anche nei confronti di se stessi. La curiosità per la Costa Concordia arenata, vive della coazione a rafforzare inconsapevolmente quella indifferenza emotiva.

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Un commento

  1. Il male principale dell’uomo è l’inquieta curiosità delle cose che non può conoscere, e per lui è peggio trovarsi in questa inutile curiosità che nell’errore.

    Blaise Pascal,

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