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Mani d’oro

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ndondo“Ndò ndò è ‘n artista”. Antonio Del Gobbo, a Smerillo e dintorni, è conosciuto da tutti come una persona saggia, esperta in ogni campo, gran lavoratore e grande ingegno. Padroneggia il mestiere di falegname, di fabbro, di muratore, di piastrellista, di idraulico, di elettricista, di armiere, di meccanico. Non c’è casa in cui non sia entrato per riparare, costruire, restaurare, aggiustare, consegnare qualche manufatto. La sua vita è cominciata 91 anni fa. Non è stata semplice all’inizio. Ha avuto 5 fratelli: quattro dalla madre Letizia (Maria, Palma, Giacomo, Giuseppe) e una sorella (Chiara) dalla prima moglie che
morì presto e costrinse il padre Nicola a risposarsi. Erano tempi duri. A 13 anni Antonio perse il padre. A 16 anni, mentre trebbiava, un piede finì negli ingranaggi della trebbia. Fu portato nell’ospedale di Amandola, ma non poterono fare altro che amputare la gamba. Quando la ferita fu guarita, Antonio si rivolse al medico dicendogli: “Non ho bisogno di una di quelle
gambe di legno dritte. Io ne voglio una che mi faccia piegare il ginocchio, altrimenti non mi serve a niente. Io ci devo lavorare”. E questa gamba di legno non gli ha precluso di eccellere in ogni settore. Perfino di camminare sopra i tetti come carpentiere o per la posa delle tegole. Ha infatti progettato e costruito, tutto da solo dalle fondamenta, la casa per i suoi figli. Da solo si è progettato e realizzato l’impianto idraulico e l’impianto elettrico. Oltre il muratore si è arrangiato a costruire fucili. Se ne intendeva anche di meccanica. Ha infatti modificato una automobile (Nsu Prinz) per poter andare nei paesi vicini. Dopo il collaudo della sua auto ne ha modificate altre per disabili. Ha avuto passione per la musica. Suona molto bene la fisarmonica
e ha costruito con le sue mani uno strumento tradizionale: il “tiramusciò”. Antonio ha un volto sereno, tranquillo,
emana saggezza e equilibrio. Afferma: “Ero contento di essere un bambino e di essere al mondo, anche se non ricordo di aver mai giocato perché non ne avevo il tempo. Eravamo poverissimi. Dovevo aiutare i miei in campagna. Facevamo i mezzadri. Eravamo come contadini e si divideva a metà (da cui il nome mezzadro) ogni cosa con i nostri padroni. Ci volevano bene i nostri padroni. Mia madre faceva tutto per loro, perfino l’infermiera”.
La mancanza di una gamba non gli ha impedito di sposarsi. Infatti era apprendista presso un falegname e un bravissimo carradore di nome Giulio. Aveva una figlia di nome Viola di cui Antonio si innamorò. La voleva sposare. Ma Giulio all’inizio era contrario a causa della sua infermità. Poi con il passar del tempo, vedendo il suo amore per Viola, e la sua passione per il lavoro,
si convinse del bene che voleva a sua figlia. Ha permesso così che la sposasse. In seguito sia Giulio che la moglie, Lisa, hanno voluto bene ad Antonio come ad un figlio. Dal felice matrimonio hanno avuto 4 figli: Grazia, Bruna, Giulio e Franco.
“Il non avere una gamba non mi ha impedito di fare tutto quello che era possibile. L’unica cosa che non posso fare – afferma Antonio – è correre. Ma continuo ancora adesso a fare alcuni lavoretti. Senza far niente non ci posso stare”.
La ricordo, la prima bottega di Antonio. Mi sembra ancora di vederla e di sentirne quell’odore caratteristico di legno e di ferro. In un angolo scuro era posta la forgia, dove Antonio lavorava il ferro. Quando ero piccolo, entravo in quel mondo e mi sentivo grande. Mi chiedevano di girare la manovella che ravvivava il fuoco della forgia. Vi erano dei carboni ardenti in mezzo ai quali c’era un pezzo di ferro che doveva essere lavorato. Ricordo il colore del ferro quando veniva scaldato. Andava da un rosso pallido, quasi bianco, ad un colore ciliegia ricco e scuro. Le diverse tinte erano molto importanti. Al centro della forgia, utilizzato per bruciare il carbone, c’era una sorta di vulcano, di cratere, che dirigeva tutto il calore prodotto dal fuoco… Una luce
bianca intensa indicava che la forgia era ben calda. Davanti alla forgia era situata, sopra un grosso ceppo di legno, l’incudine. Antonio prendeva il ferro arroventato si girava e lo lavorava sopra l’incudine. Grazie al suo colore, il fabbro conosceva la sua temperatura e capiva l’ora di martellarlo. Colpire il metallo sull’incudine era un lavoro che a volte veniva fatto anche da due persone insieme, a ritmo. Quando c’era una sola persona che lavora, il ritmo è più o meno di una pulsazione al secondo.
Ogni tanto Antonio, dopo aver colpito il ferro, lo alzava in aria, lo girava da ogni parte, lo osservava attentamente per
verificarne la forma e per correggere eventuali difetti. Dopo un certo tempo, il metallo si raffreddava ed era necessario scaldarlo di nuovo. Ed allora io ricominciavo a girare quella manovella per ravvivare il fuoco della forgia. Da una parte c’era un grande trapano fissato su un tavolo. Serviva per perforare i pezzi di ferro più grandi. Antonio infatti aggiustava anche gli aratri, preparava vomeri, costruiva catene, cerniere in ferro per porte, serramenti vari.
Quella era una bottega, di direbbe oggi, plurifunzionale. Era un’officina dove si svolgeva ogni lavoro: dal calzolaio, all’armiere, dal ramaio, al pittore. Ma era anche un luogo di incontro, dove tanta gente approdava per parlare, per consigliarsi, per fare due chiacchiere. Principalmente la bottega di Antonio era divisa in due parti: una per il fabbro e una per la falegnameria.
In quella bottega c’erano tutti gli attrezzi, pianali, pezzi di legno sparsi un po’ ovunque, lavori completati e lavori da completare. Si costruivano porte e portoni, armadi e madie (dette in dialetto “mattara”). Si aggiustavano sportelli, finestre. Si verniciavano portoni e piattine (carri dalle sponde più basse e dal pianale più grande). Quella del falegname è sempre stata un’occupazione
umile, dove tutto è utile e pragmatico.
Dietro ogni opera, ogni lavoro commissionato esisteva un rapporto di affetto, un legame che andava oltre lo scambio economico. “Essere falegnami è una scuola di vita. Le professioni si arrangiano ma il rispetto degli altri e la serietà non si improvvisano. Io entro nelle case degli altri, – dice Antonio – nei loro spazi di intimità, creo i loro ambienti, i luoghi in cui dovranno vivere. La cosa più bella di quando finisci un lavoro è la soddisfazione del cliente. Naturalmente anche il conto è importante, perché è con quei soldi che devo vivere ma se non ricevo un complimento, una parola di elogio mi dispiace. Mi
dispiace più che non ricevere i soldi perché in questo lavoro la conoscenza e il sacrificio sono grandi e una buona
parola è una soddisfazione che bisogna dare”. La maestria di Antonio è nascosta in ogni angolo a Smerillo, dove ha
costruito fontane, portoni, finestre, impianti di riscaldamento.
Nelle sue parole si svelano i segreti di un artigianato che facilmente travalica il limite della creazione artistica vera
e propria. La conoscenza dei legni, delle differenti durezze, l’assecondare le venature e le curvature del legno, il saper disegnare le forme, tagliare, intagliare, sono tutte capacità che non si possono improvvisare ma vanno coltivate negli anni, a volte nei secoli. E questa maestria non è nata sui banchi della scuola, ma da una innata curiosità e dallo stupore davanti a ogni cosa.
Antonio è un maestro di vita. Dimenticavo una cosa importante. Antonio è anche mio zio. •

Nicola Del Gobbo

About Tamara C.

Direttore de La Voce delle Marche

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Un commento

  1. buongiorno, da ragazzo ho soggiornato per alcune estati nella casa di Antonio a Smerillo, vicino all’arco.. anni 1965 in poi credo..mi piacerebbe risentire la figlia Bruna

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