Non le importava tanto dei vincisgrassi o dell’agnello, il piatto che più le premeva era la ciambella di Pasqua. Quei pochi ingredienti: lo zucchero, le uova, il mistrà e l’olio mescolati insieme davano una grande massa che prima veniva lessata e poi messa al forno. A me, che aspettavo questo giorno con impazienza, era giusto concesso di “abbuturarle” e di inciderne la superficie prima della cottura. Ricordo che i buchi non venivano mai uguali e così una volta messe a tavola col vino cotto era facile riconoscere chi le avesse fatte. Per noi bambini era fonte d’orgoglio essere ammessi a certi rituali che a nostra nonna stessa erano stati tramandati e che mai erano andati dispersi sebbene avesse vissuto anche gli anni della guerra.
La semplicità di queste ciambelle le rendevano le regine indiscusse della tavola e portavano la gioia sui visi dei commensali.
Intanto che queste venivano cuocendo noi bambini, che non volevamo stare fermi di fronte a tanto fervore, utilizzavamo le uova rimaste per fare gli addobbi per la tavola.
Avremmo potuto usare le tempere o gli acquarelli di cui eravamo dotati, ma sempre mia nonna, mi aveva insegnato che il colore che danno alle uova l’acqua della cicoria e delle rape è un colore unico. Il giallo e il verde permeavano nel guscio e le rendevano pronte e perfette ai disegni più bizzarri fatti rigorosamente col carbone che conservavamo dalla notte precedente. Era bello indicare chi si sarebbe seduto con noi a tavola. Nel nostro piccolo era una gara a chi rendeva questo giorno più speciale.
Oggi queste tradizioni pulsano vive nel mio cuore e mi rendono una persona più ricca. Quei colori e quegli odori che si spandevano nell’aria mattutina continueranno a riempirmi la testa, e io saprò che finché non dimentico il vero valore della Pasqua mi accompagnerà. •
Giulio Lasalvia