Tempo verrà / in cui, con esultanza, / saluterai te stesso arrivato / alla tua porta, nel tuo proprio specchio / e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro, / e dirà: Siedi qui. Mangia. / Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io. / Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore a se stesso, / allo straniero che ti ha amato per tutta la tua vita, / che hai ignorato per un altro e che ti sa a memoria. / Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore, le fotografie, / le note disperate, / sbuccia via dallo specchio la tua immagine. / Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.
La musica di “Amore dopo Amore” composta da Derek Walcott, il “nomade tra le culture”, come amava definirsi, mi dà il “la” per parlare ancora una volta di stranieri, di identità e di accoglienza. Per chi non lo conoscesse, Walcott è un poeta caraibico discendente da famiglie di schiavi deportati, insignito nel ’92 del Nobel per la letteratura, nato nell’isola di St. Lucia (Piccole Antille), ex colonia inglese. Dai suoi scritti emerge un originale crogiolo di lingue e culture: “sono solo un negro rosso che ama il mare; / ho avuto una buona istruzione coloniale; / ho dell’olandese, del negro e dell’inglese in me, e o sono nessuno, o sono una nazione”. Così si descrive in The Shooner Flight. Questo suo essere impastato di più culture, di più identità rappresenta per lui certamente un elemento di ricchezza che gli impedisce di sviluppare una visione statica e sclerotizzata della vita e gli permette di fare una riflessione profonda sulla sua identità personale e sociale. Riflessione alla quale siamo chiamati anche noi, oggi, perché ci troviamo alla vigilia di una grande trasformazione i cui esiti dipendono in buona parte da noi e dalla nostra capacità di riconoscere nello straniero accampato alla nostra porta non uno sconosciuto, ma una parte del nostro Io. Un Io che ci domanda di far parte di noi, che ci chiede di non essere tagliato fuori: “Saluterai te stesso arrivato alla tua porta … Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io”. Condizionali che stridono con le immagini di muri di fili spinati ritenuti come uniche soluzioni possibili alla “bomba nera” che, a detta dei media, sta per invaderci. “Bomba nera” è un’espressione che Padre Alex Zanotelli utilizzò profeticamente decenni fa per indicare quello che a suo modo di vedere sarebbe accaduto, e che oggi l’Europa sta vivendo. Lo raccontava qualche sera fa un nostro amico che è venuto a far visita al seminario col suo gruppo parrocchiale per conoscere la realtà dell’accoglienza che viviamo in diocesi e per ascoltare le voci e le storie dei nostri giovani rifugiati. Giovani nei quali è facile scorgere tutta la ricchezza tipica di chi, come Walcott è nato e cresciuto in una terra post-coloniale fatta di mosaici d’identità e intrecci di lingue e culture. Sono giovani poco più che maggiorenni, eppure hanno quegli sguardi profondi di chi ne ha già viste tante, forse troppe nella vita, e parole cariche di saggezza e di sconcertante verità.
Tra le tante storie racconto qui quella di F. giovane ivoriano che è arrivato a Fermo dieci mesi fa e che sta svolgendo un tirocinio formativo per imparare a fare il panettiere. Il suo sogno è di aprire una panetteria. E alla domanda se gli piacerebbe rimanere in Italia o andare in un altro Paese europeo lui risponde: rimanere in Italia. Se mi domandassero il perché risponderei perché L’Italia mi ha accolto. E semmai un italiano un giorno mi rimproverasse di qualcosa, io accetterei il suo rimprovero, perché nei confronti degli italiani avrò sempre una grande riconoscenza per tutto quello che hanno fatto per me.
Oppure la storia di U. che ci dice che la cosa che lo ha più colpito dell’Italia è stato vedere per strada la gente camminare senza armi addosso, libera di muoversi senza paura. Racconta anche della sua amicizia con un italiano che ha conosciuto qui a Fermo, il quale è diventato per lui un secondo padre, una persona che fin dall’inizio si è preso cura di lui e lo ha accolto, senza pregiudizi, nella sua famiglia.
Siamo alla vigilia di un cambiamento epocale, dicevo, e a noi che rispetto agli altri Paesi Europei non abbiamo ancora ben definito il modello di integrazione da adottare, spetta il compito di costruirne uno che sia alternativo a quelli proposti fino ad oggi e risultati inefficaci. Il sogno di un’accoglienza dal taglio interculturale, in cui l’alterità è riconosciuta come positiva, in cui le culture si incontrano pur riconoscendosi nella loro reciproca diversità e si arricchiscono a vicenda, non può rimanere un’utopia. Affinché ciò si realizzi, è necessario ripartire dai volti, dalle vite e dalle identità. “Sono nessuno”, scriveva Walcott riferendosi alla sua storia che si porta dentro quella di schiavi deportati dall’Africa e trapiantati altrove: “la mia razza ebbe inizio quando il mare ebbe inizio / senza nomi né orizzonte / … cominciai senza memoria, / cominciai senza futuro”, ma aggiunge: “e o sono nessuno, o sono una nazione”.
Questa conclusione contiene in sé una possibile risposta al grande interrogativo che spesso chi viene a trovarci in seminario per ascoltare la testimonianza dei rifugiati si porta dentro: come aprirsi agli altri senza perdere se stessi? e cosa fare concretamente per accogliere? Penso che ora sia giunto il momento di osare, di decidersi a scardinare l’idea tutta europea dell’identità come unica radice, come monolite intoccabile per lasciarci sfiorare dal contatto con l’altro, con la radice dell’altro, per scoprire che nell’incontro perdere qualcosa di sé è la condizione necessaria per giungere alla vera identità di se stessi e dell’altro. E finalmente sedersi a tavola e far festa, dando il benvenuto allo straniero nella propria casa, non in senso metaforico, ma con un’accoglienza concreta, fatta di pane, di vino, di sorrisi e di reciproca riconoscenza. •
Filomena Benedetta, sorella di Jesus Caritas