Una relazione artificiale o una tensione mistica?
Partendo dalle parole greche, o almeno da molte di esse – sostiene Polyxene Kasda, la realizzatrice della coppa della fiaccola per le Olimpiadi di Atene del 2004 –, mediante un’elaborazione algoritmica della loro struttura aritmetica, si possono generare forme sorprendenti. Quasi in ossequio al detto di Eraclito: “Il nome è pronunciato dall’invisibile ed è una legge naturale”; o giusta l’affermazione di Democrito: “Il nome e una scultura parlante”.
Così, secondo l’elaborazione della Poly Kasda, “la parola Onoma – nome – genera la forma di un’anfora/contenitore che dà forma al vuoto. La parola Elpida – speranza – nasconde una fiamma o una lancia; la parola Anthropos – uomo – origina un’aquila, simbolo transtemporale dello Spirito. La forma della farfalla è incastonata nel nome Psyché e i Greci antichi chiamavano la farfalla Psyché. Il Graal (coppa), l’ultimo oggetto e passo della ricerca d’immortalità, è contenuto nel nome Chrysalis, archetipo naturale di trasformazione.”
“R. Barthes – continua la Kasda –, che ha tentato di costruire una morale del segno, ha proposto il segno della mistica come un modello di autentica comunicazione interpersonale. Nelle sue conferenze su “Come Vivere Insieme” ha dichiarato che dobbiamo “attraversare il linguaggio per raggiungere il linguaggio ulteriore”, come se vedesse nel linguaggio un contenitore di auto-rigenerazione. Un colpo di sole che un po’ ci stordisce, un po’ ci illumina a riflettere.
Tutto questo ci richiama la vicenda dell’Eden, allorché Adam fu incaricato di conferire un nome agli animali che gli erano stati posti davanti. E li nominò certamente in modo tale che il nome corrispondesse alla loro “quiddità”, ossia a ciò per cui erano quella cosa e non altro. E quel suono era la loro verità, anzi la conteneva.
Perse nella memoria e nei testi di filosofia le diatribe tra nominalismo (nomina flatus vocis) e realismo (nomina consequentia rerum), che cosa ci resta oggi di quella tensione/tenzone tra discorso/parola (significante) e oggetto concreto o astratto (referente)?
Sembra che, dopo aver gustato improvvidamente del frutto dell’albero della conoscenza, Adam abbia perso via via la consapevolezza di ciò che lega la verità e la realtà al linguaggio e abbia come dissipato, per tappe successive, la ricca dotazione originaria.
Il romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa (1978) deve la diffusione e il successo mondiali alla proclamazione coram mundo della fine del valore di ogni discorso, dell’estinzione di ogni rapporto possibile tra parola e verità. Non è stato ovviamente Eco a recidere tale rapporto, sempre problematico, come detto, nel corso della storia del pensiero. Eco ha fatto semplicemente da “eco” (nomen omen?) a una voce, sempre più pervadente tra i desideri del mondo, che reclamava l’affrancamento da ogni vincolo; e per ottenerlo abbracciava volentieri la strategia di un allegro e ironico nominalismo nichilistico.
L’uomo, così, non ha più alcun valore: se, infatti, non ne ha quello che dice (o che pensa), non può averne, perché non può essere rappresentato, quello che è (nel passato, nel presente e nel futuro) o quello che realizza.
E se la triadica direttrice dell’essere, del pensare e dell’agire, insieme alle dimensioni orizzontali del tempo (successione) e dello spazio (estensione), statuendo e costituendo la dimensione verticale del “valore” eccedente, rendeva quella umana un’esperienza immanente e trascendente rispetto allo svolgersi fisico della storia, la sua sparizione (o soppressione) ci schiaccia sul piano orizzontale di un mondo bi-dimensionale fatto solo di successione e di estensione: il mondo meccanico.
La cultura che oggi rivendica l’esclusiva del palcoscenico, sacrificata la libertà sull’altare del velleitarismo, ha destabilizzato, insomma, il nesso fra realtà, discorso e verità; e ha deprivato la parola della “responsabilità” nei confronti della luce e della carne delle cose, stravolgendone il ruolo di memoria ‘fossile’ dell’originaria radiazione, e declassandola da anello di sim-bolo e di dia-logo a luogo di incontri mancati.
Ogni linguaggio si è trasformato in una serie interminabile di tenebrosi e futili echi autoreferenziali, in una babele di discorsi incomunicabili che urtano, schiantandosi o rimbalzando via, contro la superficie del reale.
La poesia non sa piú di cosa parla(re); né lo sa la scienza o la filosofia o l’arte, la tecnica o l’economia, la politica o l’etica, la storiografia o la cronaca.
L’unico e ultimo svigorito vigore dello spirito rimane il languore di Narciso intossicato dall’hýbris del fumo di Prometeo: la forma piú sottile dell’odio verso l’Altro, verso ogni altro, verso quell’incompiuta compiutezza di ogni altra cosa che chiamiamo mondo, e infine verso quell’altro che è il sé di ciascuno.
E allora – riandando a Barthes – la sfida per un’eventuale rigenerazione del senso dell’esistere, del fare e del pensare/parlare può essere sostenuta solo abbandonandosi, per misteriose e molteplici vie, all’ascolto del Lógos, la Parola detta prima, il verbo arcaico, il suono silente di tutte le voci, e loro dimora e conchiglia; lo spazio aperto ma invalicabile del sacro, il ‘dato’ che non può essere posseduto. In Lui solo, proprio nel suo “infinito eccesso”, si trova la resistenza che della realtà tutela il senso e la provocante alterità, vietandone la combustione nel cortocircuito tra verità (ritenuta irraggiungibile) e discorso (considerato e utilizzato preferibilmente nella sua fatuità)..
Solo il Lógos-Luce-carne rende persuasiva la sproporzione tra la parola umana e “l’infinita via” della verità, e fa esaltante l’intervallo fra entropia e vita, tra ricerca e conoscenza, tra conoscenza e sapienza. Solo in esso la scienza, la filosofia, la poesia, la mistica, la teologia, l’arte e la stessa téchne possono essere altrettante fioriture sull’unica via della peregrinazione verso la lucente iridescenza dell’Assoluto. •