Scrivere per pensare e capire

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Il mio primo articolo l’ho pubblicato il sedici aprile del 1988 sul periodico Il Cittadino di Monza e Brianza, quando abitavo a Giussano, direttore l’ing. Galbiati prima e Luigi Losa poi.
L’amico Giovanni Trovato, che pubblicava sulla pagina di Verano Brianza, mi aveva chiesto di dare notizia di un convegno su don Milani, che si era tenuto proprio a Giussano nel marzo del 1988 e al quale avevo partecipato. La mia collaborazione con il settimanale, per la pagina di Verano Brianza prima e di Giussano poi, ebbe inizio da allora e si protrasse fino al 1996, anno del mio ritorno nelle Marche. Ricordo che ci si ritrovava ogni martedì sera, dopo cena, come redazioncina locale in una stanza dell’ex cinema “Celeste” di Giussano, assieme a Paolo e Angelo Molteni, Cristina Pozzoli e altri. Decidevamo i pezzi da scrivere. Curavo anche la rubrica “Giussàn de la memoria”. Curiosità, voglia di sapere, ambiente stimolante erano gli ingredienti che mi ero fabbricato e trovato. Leggevo con avidità tutti i numeri de I Quaderni della Brianza, rivista che nelle intenzioni del suo fondatore, il senatore Vittorino Colombo, doveva servire, da apripista per la costituzione della Provincia di Monza e Brianza, come poi è stato. Ogni redazione locale, una trentina circa, che copriva tutto il territorio brianteo, inviava i propri contributi alla redazione centrale di Monza. Nel corso della settimana uscivano quattro diverse edizioni del settimanale.
Avuto il trasferimento nella Scuola Media “A. Caro” di Civitanova Marche, dopo qualche anno, presi uno dei primi numeri de La Voce delle Marche, in parrocchia. Trovata l’email del periodico, scrissi al direttore di allora, Giuliano Traini, che tra l’altro conosceva molto bene Luigi Losa, e iniziai così la collaborazione, continuata poi con il nuovo direttore don Nicola Del Gobbo. Avevo messo la mia disponibilità e fare informazione per un territorio che avevo scelto sì per vent’anni come patria di elezione, ma non potevo non farlo per una porzione di territorio nel quale son nato e per una diocesi alla quale devo molto: Scuola Media, Ginnasio e Liceo “Paolo VI” annessi al seminario arcivescovile di Fermo. Avere un periodico in diocesi, vuol dire trovare, nello stesso, notizie e informazioni che non si trovano nei quotidiani locali. È la manifestazione anche visiva di sentirsi chiesa diocesana. In Brianza, ricordo che assieme a Il Giorno e ad altri quotidiani, la gente era abituata ad acquistare Il Cittadino di Monza e Brianza. Le poesie dialettali di Angelo Elli, Antonio Curioni, Sergio Guigard, che facevo conoscere di volta in volta, i lettori non le trovavano in nessun altro giornale. Le pagine di storia locale le leggevano sul Cittadino, d’ispirazione cattolica o sull’Esagono, di matrice laica e allora era una gara tra chi scriveva meglio ed era letto.
Avere un periodico cartaceo è meglio che averlo in formato digitale. La carta stampata mantiene ancora tutto il suo fascino. Ma se si deve fare di necessità virtù, perché la stampa costa e la gente non legge, allora piuttosto che niente è meglio piuttosto. Anche il digitale avrà un futuro, basta crederci. Quelli che non credono né al formato cartaceo né a quello digitale sono solo dei pigri. Peccato che tra questi vadano annoverati anche alcuni parroci e preti. Ricordo che alcuni di loro, quando erano interpellati e il periodico era ancora cartaceo, dicevano che il settimanale non veniva letto e che non era fatto bene. Se si chiedeva loro come dovesse essere fatto, non suggerivano nessuna proposta. Davanti a certe risposte, ricordo che mi sentivo ancora di più impegnato a continuare nella collaborazione, raddoppiando gli sforzi e la disponibilità, perché vedevo che dietro certe affermazioni non c’era proprio nulla. Ricordo che un giornalista, in televisione, un po’ di tempo fa, disse che senza profitto non c’è informazione. È la legge di mercato. L’informazione si può fare anche con il volontariato. È riconosciuto dall’art. 21 della Carta Costituzionale: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, anche se questo vuol dire andare controcorrente. Ognuno sceglie le forme di volontariato al quale è più portato.
Mi sono appassionato a La Voce delle Marche perché vi ho conosciuto persone validissime che mettono a disposizione il loro tempo libero e a titolo gratuito per fare informazione. Danno voce a chi non ha voce. Don Milani insegna ancora. Le potenzialità del periodico, anche in forma digitale, sono enormi. Basta crederci. So che i parroci sono impegnati su mille fronti, ma la comunicazione, l’informazione e la lettura devono sempre occupare i primi posti. Sta a loro invitare i propri fedeli a leggere e a documentarsi anche leggendo La Voce delle Marche. Occorrerebbe anche inserire nella redazione, come corrispondenti locali, forze giovani che amano leggere e scrivere. La lettura e la scrittura sono attività che vanno coltivate: “La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. L’uno se ne accorge nell’affrontare il libro del motore per la patente. L’altro fra le righe del giornale del suo partito. Un terzo s’è buttato sui romanzieri russi e li intende” (Don Milani). La parola spiega, racconta, persuade, produce sentimento, consola. È alla base di qualsiasi comunicazione umana e sociale. Tutti i numeri usciti sono validi, anche se i più significativi, a mio parere, sono quelli che hanno toccato i nostri territori: la morte di Emmanuel Chidi Mandi, la disperazione di sua moglie Chimary e la tragedia del terremoto che ha sconvolto le nostre comunità. Non so dire quale articolo scritto mi abbia dato più soddisfazione. Per me, citando Silone, scrivere ha sempre voluto dire necessità di testimoniare quello in cui credo, quello che vedo attorno a me e che ritengo utile darne notizia perché tutti o molti sappiano e siano informati. Un articolo che non ho mai pubblicato riguardava lo spettacolo teatrale di sabato 16 aprile 2016 dato al cine teatro “Conti” di San Marone. Lo tiro fuori dal cassetto solo ora nelle sue linee generali. Era di scena il testo di Tolstoj Di che cosa vivono gli uomini, ridotto a pièce teatrale dal regista fermano Luigi Maria Musati. Alla serata erano presenti cinque spettatori, eppure l’iniziativa, promossa dal Centro Culturale San Rocco, dall’Ufficio per la Pastorale dello Sport, Turismo e Tempo Libero, era stata pubblicizzata a dovere. Tutte le parrocchie della Vicaria di Civitanova Marche e Potenza Picena erano state informate. Senz’altro molti non avevano sentito il bisogno di venire in teatro perché conoscevano alla perfezione Lev Tolstoj ed avevano letto il suo testo. Vivono di bontà, di generosità, di altruismo e non conoscono né l’alterigia né la prepotenza impersonate dal ricco mercante del testo. Sanno di che cosa vivono gli uomini e di che cosa è dato a loro di non vivere. Solo i cinque presenti allo spettacolo non conoscevano né Tolstoj né il suo testo. •

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