Gli incontri sono avvenuti a P. S. Elpidio per tutti e a Fermo, presso l’Istituto Teologico.
Di seguito riportiamo la relazione di Severino Dianich.
l. Introduzione
Sul piano generale il suo magistero non fa che riproporre il concilio, ponendo però al centro di tutto, in maniera più decisa, la ripresa dell’evangelizzazione.
Una dichiarazione di intenti determinante per tutto il futuro ministero: EG 23 «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa». Questo spiega insistenze su alcuni temi e oblio, apparente, su altri, in base all’affermazione del Concilio, per cui UR 11 «esiste un ordine o piuttosto una “gerarchia” delle verità nella dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana».
Le numerose conflittualità della Chiesa con la cultura contemporanea non vengono ignorate, ma sono affrontate con la discrezione necessaria, perché non diventino ostacoli insormontabili per poter comunicare prima di tutto il cuore del vangelo.(v. la rinuncia degli apostoli al bisogno di ribellarsi contro la schiavitù e la posizione di inferiorità della donna}.
Non manca la consapevolezza che tutto questo, però, produce conflitti all’interno della Chiesa. Egli li ritiene, entro certi limiti, un fenomeno fisiologico, non patologico:
«Personalmente mi sarei molto preoccupato e rattristato se non ci fossero state queste tentazioni e queste animate discussioni; questo movimento degli spiriti, come lo chiamava sant’Ignazio, se tutti fossero stati d’accordo o taciturni in una falsa e quietista pace». Lo poteva fare avanzando prima di tutto la fede nell’azione dello Spirito Santo, «il vero promotore e garante dell’unità e dell’armonia nella Chiesa. Lo Spirito Santo che lungo la storia ha sempre condotto la barca, attraverso i suoi ministri, anche quando il mare era contrario e mosso e i ministri infedeli e peccatori».
2. Alla ricerca della struttura teologica del magistero
A. Naud, Il magistero incerto, 1987
Sembra che papa Francesco ne condivida la preoccupazione intorno ad una certa «fiducia esagerata nel potere chiarificatore del linguaggio» che ha spesso caratterizzato il dettato del magistero della Chiesa.
Mi sembra di scorgere in questo il nodo cruciale dei dibattitti intorno a questo pontificato soprattutto dopo la pubblicazione di AL. Quanto l’affidarsi ad un preciso linguaggio definitorio ha una sua ovvia utilità per la vita interna della comunità cristiana tanto è scarsamente comunicativo con il grande numero di “cristiani della soglia” e per nulla ai fini dell’evangelizzazione.
Due direzioni del suo magistero cui Francesco presta particolare attenzione. Da qui la sua ricerca di altre forme dell’esercizio del suo magistero.
Il 29 marzo 2015 il cardinale Gerhard Ludwig Müller in un’intervista a La Croix affermava che
«la Congregazione per la dottrina della fede ha una missione di strutturazione teologica di un pontificato». Dando l’impressione che la congregazione venisse pensata come dotata di un potere magisteriale superiore a quello del papa stesso.
Ora, si farebbe un grave torto nell’attribuirgli l’idea di avere lui il compito di censurare il magistero del papa. L’espressione pone, invece, alla riflessione teologica interrogativi interessanti, sulla relazione tra la fede e la teologia, tra la predicazione e la decretazione dottrinale da parte dei vescovi e del papa, tra una teologia cristiana fortemente «ellenizzata» e le diverse teologie contestuali, tra le infinite espressioni autentiche dell’esperienza cristiana e la regola del linguaggio dell’ortodossia.
Questioni antiche ma che ritornano particolarmente attuali in un’epoca, nella quale in moltissimi campi del sapere e del vivere i paradigmi del passato vengono profondamente mutati, quando non stravolti. Se nessuno ha il compito di dare una struttura teologica a un magistero che ne sarebbe privo è compito di tutta la riflessione teologica quello di portare allo scoperto la struttura teologica sottostante al magistero di un pontificato .
3. La struttura teologica «classica»
Nel suo filone più divulgato la tradizione teologica occidentale ha utilizzato lo schema linguistico e argomentativo proprio della cultura greco-latina. Nel logos giovanneo si è scorto un innesto irreversibile di idee e procedure della filosofia greca dentro il tessuto del pensiero cristiano.
La teologia scolastica moderna e poi la neo-scolastica, son sembrate volersi confrontare con la razionalità moderna ponendosi sullo stesso suo piano. Con l’avvento, quindi, della cultura postmoderna, il magistero ha anch’esso cercato di contrapporsi al suo caratteristico e diffuso relativismo affidandosi alla capacità veritativa della ragione ritenuta un possibile piano comune.
Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona riconosceva la presenza di posizioni teologiche diverse tendenti, all’opposto, verso la necessità di una deellenizzarione del cristianesimo, in nome della dilatazione della fede in culture molto diverse non più disposte ad accettare il colonialismo culturale da loro subito da parte delle Chiese occidentali.
La risorgenza dell’urgenza dell’evangelizzazione, al di là della distinzione ormai obsoleta fra paesi cristiani e paesi non cristiani sta creando il bisogno di pensare l’unica fede con strumentazioni concettuali e processi argomentativi differenziati.
Senza cadere in alcuna forma di fideismo, la tradizione della fede anche in antico ha sentito il bisogno di conservare la pluralità dei suoi linguaggi pur restando fondamentale il ruolo magisteriale definitorio del dogma, come erezione di un argine non valicabile per la permanenza nei confini dell’ortodossia.
Dopo il concilio di Calcedonia del 451 un certo vescovo Euippo confessava la sua “impressione che al concilio non si sia proceduto piscatorie ma aristotelice” e i Padri calcedonesi erano ben convinti che la loro definizione non avrebbe dovuto sostituire i diversi simboli battesimali , così come i padri del Vaticano II affermavano che la Chiesa
GS 42 «in forza della sua missione e della sua natura non è legata ad alcuna particolare forma di cultura umana».
È noto inoltre il costante sforzo dei Padri del Vaticano di sciogliere il loro linguaggio dagli stilemi della neoscolastica.
Bernard Lonergan individua tre fonti del pluralismo nell’espressione dell’unica fede: la pluralità delle differenze linguistiche, sociali, culturali che determinano il senso comune; la coscienza della persona che si rivela determinata da alcune particolari combinazioni tra senso comune, trascendenza, bellezza, sistema, metodo, istruzione, interiorità filosofica; lo sviluppo nella persona del suo cammino intellettuale, morale o religioso. È, quindi, necessario il superamento di quello che egli chiama «il classicismo», la mentalità per cui sembra che ci sia una sola cultura, cui si perviene attraverso studi normalmente non praticati dai semplici fedeli. Alla conversione alla fede cristiana è essenziale anche la componente intersoggettiva, perché la dottrina della Chiesa sta dentro la concretezza determinata della testimonianza cristiana.
4. Magistero decretante e magistero predicante
Gran parte del magistero del primo millennio, escluso il caso dei concili ecumenici, si è svolto non definendo e decretando, ma predicando. Solo dal grande sviluppo della canonistica in poi, che corrispose fra l’altro alla decadenza della predicazione da parte dei papi e dei vescovi e alla concezione esclusivamente giuridista (non sacramentale) dell’episcopato il magistero si è svolto dentro i diversi generi letterari della decretazione.
Il ministero episcopale del resto sembrava non avere una sua particolare identità sul piano del sacramento, bensi sul piano della potestas iurisdictionis.
“Papa est nomen iurisdictionis” sarà un topos costantemente ripetuto, dopo che nel secolo XIII Agostino Trionfo l’aveva coniato .
Bisognerà attendere il Novecento per ritrovare papi che si dedichino alla predicazione, sia tenendo l’omelia durante le celebrazioni liturgiche, sia dirigendosi al popolo con la catechesi, sia dirigendosi a particolari categorie di persone con elaborati e impegnativi discorsi su argomenti di attualità.
Se si passa da un Leone XIII di cui il sito del Vaticano riporta una sola omelia a Pio XII con 24 omelie e più di 1000 fra discorsi e radiomessaggi a papa Francesco con, solo nel 2014, 53 omelie, oltre a quella quotidiana, 43 prediche al popolo nelle udienze generali e 234 discorsi è difficile pensare che la svolta non debba essere considerata rilevante per la stessa odierna teologia del magistero.
La radice della nuova concezione è la definizione conciliare del ministero episcopale come fondato su una ulteriore ordinazione sacramentale e non caratterizzato esclusivamente dal conferimento della potestas iurisdictionis.
Di conseguenza la predicazione e il magistero non possono più essere definiti come una componente della potestas iurisdictionis.
Per il Vaticano II fra i tria munera che il sacramento conferisce «eminet praedicatio evangelii».
Non si può non dedurne che anche nel primato papale ciò che «eminet» è la predicazione. Francesco sottolinea il valore di un atto che si compie
«nel contesto della liturgia […] come parte dell’offerta che si consegna al Padre e come mediazione della grazia che Cristo effonde nella celebrazione»
e attribuisce allo stesso «Spirito, che ha ispirato i Vangeli e che agisce nel Popolo di Dio», l’ispirazione del celebrante portato ad «ascoltare la fede del popolo» e poi a «predicare in ogni Eucaristia» (EG 142, 138 e 139).
Se la celebrazione liturgica rappresenta il culmen et fons di tutta la vita della Chiesa, la predicazione del vescovo nella liturgia è il culmine e la sorgente di tutto il suo ministero; e l’omelia del vescovo di Roma durante la celebrazione liturgica deve essere considerata culmen et fons di tutto il magistero papale, per cui la predicazione del papa e dei vescovi al popolo deve essere criterio di interpretazione dei documenti, e non viceversa.
Mentre la decretazione utilizza necessariamente un linguaggio oggettivante e di carattere impersonale, universale, il discorso orale per natura sua è performativo e fortemente determinato dal circolo comunicativo che va dal locutore all’interlocutore e viceversa.
Questo carattere della predicazione avrà un forte influsso sulla forma globale del magistero e dei suoi stessi contenuti. Cosi Francesco invitava anche i vescovi italiani a concentrarsi soprattutto nella proposta del vangelo sine glossa:
«Siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio» .
Egli si preoccupa anche che i fedeli si ritrovino a recepire, in un discorso perfettamente ortodosso,
«a causa del linguaggio che essi utilizzo e comprendono … qualcosa che non corrisponde al vero vangelo di Gesù Cristo» (EG 41).
Gregorio Magno, commentando il libro di Ezechiele, diceva ai suoi ascoltatori: “So bene che molte cose, che nella sacra Scrittura da solo non sono riuscito a capire, le ho capite una volta posto di fronte ai miei fratelli. Compreso questo, ho anche cercato di capire per merito di chi me ne venisse data l’intelligenza. È evidente, infatti, che quanto mi è dato di capire a loro vantaggio mi è dato proprio dalla loro presenza. Cosi, per grazia di Dio, avviene che cresca il senso delle cose e diminuisca il mio orgoglio, giacché grazie a voi imparo ciò che a voi insegno” .
Fra l’altro è particolare interessante l’assoluta preferenza di papa Francesco per il discorso orale, né si può ignorare che di fatto il magistero papale che più viene divulgato dai media è oggi quello delle omelie quotidiane e delle prediche settimanali all’udienza generale.
5. Magistero ed evangelizzazione
Oggi questo modo di esercitare il munus docendi entra, di fatto, nella discussione pubblica sui grandi temi della vita anche fuori della Chiesa. Cosi sempre più, paradossalmente, il papa con il suo magistero diventa soggetto di evangelizzazione, mentre in tutta la storia si è caratterizzato come semplicemente responsabile dell’invio di altri in missione e come custode dell’ortodossia della fede della Chiesa.
Oggi niente può accadere dentro la Chiesa che non sia oggetto di attenzione e di discussione anche fuori della Chiesa. Da qui, se l’evangelizzazione viene riposta al centro di tutta la vita ecclesiale, diventa indispensabile l’attenzione ai riscontri che i dettati magisteriali avranno nella conversazione generale e la preoccupazione che, pur nel rigore della fedeltà al vangelo, essi non intralcino l’opera dell’evangelizzazione.
L’esercizio del magistero nell’antica societas christiana poteva giovarsi del suo carattere di autorità anche rispetto alla società civile, nella quale poteva essere accolto come obbedienza alla Parola di Dio e alla Chiesa deputata ad annunciarla. La presa di coscienza della mutata situazione ha provocato anche il Vaticano II a ripensare lo stesso modo di comprendere e presentare la dottrina sulla rivelazione che era stato proprio del Vaticano I il quale si appellava al fatto che Dei Filius «la ragione creata è sottomessa completamente alla verità increata, (per cui) quando Dio si rivela, dobbiamo prestargli, con la fede, la piena soggezione dell’intelletto e della volontà…. crediamo vere le cose da lui rivelate, … per l’autorità dello stesso Dio».
Per il Vaticano II non sarà l’appello alla ragione e alla sottomissione all’autorità di Dio che introdurrà l’uomo all’accoglienza della fede, quanto piuttosto la percezione che nell’esperienza della fede cristiana si entra in colloquio con Dio, il quale «nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici».
Questa prospettiva non può non determinare importanti mutazioni nella forma dello stesso magistero e nel suo piegarsi dal linguaggio imperativo a una predicazione che “esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche.”(EG 165). •