Una ricerca faticosa e inebriante nel cuore della Divina Commedia
È indubbio che una delle tracce portanti della Divina Commedia sia il racconto della peregrinazione verso la libertà:
“Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando”(Purg., I, 71-72).
Premio della libertà riconquistata è la pace:
“che, dietro i piedi di sì fatta guida,di mondo in mondo cercar mi si face”(Purg., V, 62-63).
Alla fine della salita lungo le balze della montagna del Purgatorio, alludendo alla libertà ormai vicina, Virgilio gli preannuncia:
“Quel dolce pome, che per tanti ramicercando va la cura de’ mortali,oggi porrà in pace le tue fami”.(Purg., XXVII, 115-117).
Infatti, subito dopo, incorona Dante re e pontefice di se stesso; e ora che la libertà egli l’ha ritrovata, ha ritrovato anche la libertà di scelta, sicché qualsiasi scelta sarà buona:
“Come la scala tutta sotto noifu corsa e fummo in su ‘l grado superno,in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: «Il temporal foco e l’etternoveduto hai, figlio; e se’ venuto in partedov’io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; lo tuo piacere omai prendi per duce; fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
Vedi lo sol che ‘n fronte ti riluce; vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelliche qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno, seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno;libero, dritto e sano è tuo arbitrio,e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio»”. (Purg., XXVII, 124-142)
Ma che cos’è questa peregrinazione verso la libertà? Da quale/i schiavitù proviene? Quale esodo la alimenta? Verso dove è diretta? E perché tutto questo andare, questo cercare, se la facoltà della libertà è costitutiva dell’essere umano?
“Lo maggior don che Dio per sua larghezzafesse creando, e a la sua bontatepiù conformato, e quel ch’e’ più apprezza,
fu de la volontà la libertate;di che le creature intelligenti,e tutte e sole, fuoro e son dotate.”(Par., V, 19-26)
D’altra parte, proprio per rimarcare questa dotazione, i canti centrali della Divina Commedia trattano del libero arbitrio:
“innata v’è la virtù che consiglia,e de l’assenso de’ tener la soglia.
Quest’è ’l principio là onde si pigliaragion di meritare in voi, secondoche buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando andaro al fondo,s’accorser d’esta innata libertate;però moralità lasciaro al mondo.
Onde, poniam che di necessitatesurga ogne amor che dentro a voi s’accende,di ritenerlo è in voi la podestate.
La nobile Beatrice intendeper lo libero arbitrio”(Purg., XVIII, 62-74)
E ancora:
“lume v’è dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se faticane le prime battaglie col ciel dura,poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a miglior naturaliberi soggiacete; e quella criala mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura.”(Purg., XVI, 75-81)
Ma che cos’è questa libertà che è così in nostra dotazione, eppure è così assente nell’orizzonte del nostro agire?
Della libertà v’è un’accezione “accidentale”, e per così dire negativa, che si riferisce alla mancanza di coercizione, di coazione, di sottomissione, di influenzamento. E di questa qui non si tratta, perché non è – e non può essere – in discussione.Qui si tratta della libertà come “forma sostanziale” della struttura della persona, che precede e comprende tutto il suo essere e il suo divenire in quanto nodo di relazioni costruttive. A ben pensare, la libertà così intesa è la liberazione del sé, l’uscita del sé da sé: “verso” il giusto pensiero “incontro” al giusto agire; e quindi la sua “realizzazione”, come liberazione, nell’agire e nel pensare, del dono di sé. È liberazione del sé come dono. È la responsabilità, è rispondere “verso” e alle coordinate dell’essere, “verso” e agli aventi diritto al dono. Nel simbolo o allegoria è mélissa – l’ape –, la stella, il kosmos, la bellezza, il vero, il buono. Sentiamo un’eco di questo processo in alcune grandi intuizioni del Paradiso, dove il dono liberamente assoluto di Dio intercetta il dono di sé dei beati, totalmente vincolato nella regola dell’Amore, totalmente “libero nel non poter scegliere” se non quell’Amore come Regula Summa.
“e già volgea il mio desio e ’l velle,sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’Amor che move il sole e l’altre stelle”(Par., XXXIII, 143-145)
E Piccarda:
“Anzi è formale ad esto beato *esse*tenersi dentro a la divina voglia,per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia per questo regno, a tutto il regno piacecom’a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.
E ‘n la sua volontade è nostra pace:ell’è quel mare al qual tutto si moveciò ch’ella cria o che natura face”.(Par., III, 79-87)
Pier Damiani, a sua volta:
“«Ma l’alta carità, che ci fa servepronte al consiglio che ‘l mondo governa,sorteggia qui sì come tu osserve».
«Io veggio ben», diss’io, «sacra lucerna,come libero amore in questa cortebasta a seguir la provedenza etterna»”(Par., XXI, 70-75)
La “provedenza” divina, statuita ab aeterno, si mostra talmente compenetrare la libera scelta dell’amore in risposta, che sono ambedue tracce congrue dello stesso symbolon, due facce della stessa medaglia. Quella “provedenza” non ha bisogno d’imporsi, solo si dona come Amore; e senza alcuna resistenza, senza alcuna forzatura o coercizione o condizionamento, ma in piena libertà sorge e fiorisce, come in risonanza, l’accordata risposta (ad cor dare).Pensare, per capire ciò, a quando si ama veramente, a quando si è veramente innamorati: allora libertà e “obbligo” sono, “dentro”, la stessa cosa, e la libertà desidera l’obbligo, il vincolo, come il pesce l’acqua, come la rondine l’aria; o come l’uccellino che assapora la sua sete di libertà dissetata dalla laboriosa ricerca del cibo per nutrire gli implumi (responsabilità):
“Come l’augello, intra l’amate fronde, posato al nido de’ suoi dolci natila notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disiatie per trovar lo cibo onde li pasca,in che gravi labor li sono aggrati,
previene il tempo in su aperta frasca,e con ardente affetto il sole aspetta,fiso guardando pur che l’alba nasca”(Par., XXIII, 1-9)
L’amore sogna talvolta, ed è felice, di donare la sua stessa libertà, di rinunciarvi… “per amore”; e questa rinuncia della libertà a se stessa diventa la più alta forma di libertà e la sua massima realizzazione, proprio perché, con un suo libero gesto, offre in “sacrificio” se stessa. Si pensi ai voti che fanno le spose di Cristo; ma si deve anche pensare ai voti che legano liberamente lo sposo alla sposa, la sposa allo sposo.
“Or ti parrà, se tu quinci argomenti,l’alto valor del voto, s’è sì fattoche Dio consenta quando tu consenti;
ché, nel fermar tra Dio e l’uomo il patto,vittima fassi di questo tesoro,tal quale io dico; e fassi col suo atto.”(Par., V, 25-30)
“perché fino al morir si vegghi e dormacon quello sposo ch’ogne voto accettache caritate a suo piacer conforma.”(Par., III, 100-102)
E nel cielo di Mercurio è un tripudio di felicità per l’arrivo di Dante e di Beatrice, occasione per donare amore, e dunque per crescere di ardore di beatitudine:
“sì vid’io ben più di mille splendoritrarsi ver’ noi, e in ciascun s’udìa:«Ecco chi crescerà li nostri amori»”.(Par., V, 103-105)
La stessa libertà di Dio è “vincolata” dalla sua natura d’Amore, sicché, per risollevare l’uomo dalla sua condizione di peccato, non poteva che “liberamente” scegliere la via del dono di sé:
“Né tra l’ultima notte e ‘l primo die sì alto o sì magnifico processo, o per l’una o per l’altra, fu o fie:
ché più largo fu Dio a dar sé stessoper far l’uom sufficiente a rilevarsi,che s’elli avesse sol da sé dimesso”(Par., VII, 112-117)
Nel “gioco” del reciproco dono del reciproco amore, la regola, anche, e soprattutto, per Dio, è lasciarsi vincere, per vincere poi, sovrabbondando nel dono:
“*Regnum coelorum* violenza pateda caldo amore e da viva speranza,che vince la divina volontate:
non a guisa che l’omo a l’om sobranza,ma vince lei perché vuole esser vinta,e, vinta, vince con sua beninanza.”(Par., XX, 94-99)
E i beati nel cielo di Venere:
“Indi si fece l’un più presso a noie solo incominciò: «Tutti sem prestial tuo piacer, perché di noi ti gioi».”(Par., VIII, 31-33)
“Ed ecco un altro di quelli splendoriver’ me si fece, e ‘l suo voler piacermi,significava nel chiarir di fori.”(Par., IX, 13-15)
La libertà, “liberamente necessitata” nella carità divina (l’“impossibilità di non scegliere” di donare), è espressa bene da San Tommaso nel canto X del Paradiso:
“E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quandolo raggio de la grazia, onde s’accendeverace amore e che poi cresce amando,
multiplicato in te tanto resplende,che ti conduce su per quella scalau’ sanza risalir nessun discende,
qual ti negasse il vin de la sua fialaper la tua sete, in libertà non forase non com’acqua ch’al mar non si cala».”(Par. X, 82-90)
E come non pensare alla libera e liberante avventura di Francesco e dei suoi frati?
Tale progetto di libertà come liberazione del sé per un libero dono di sé a bene d’altri (charis), è un progetto che esalta la libertà di tutti e amplifica quel bene che tanto più si accresce, quanti più sono a condividerlo, perché:
“quanta gente più là sù s’intende,più v’è da bene amare, e più vi s’ama,e come specchio l’uno a l’altro rende.”(Purg., XV, 73-75)
Tuttavia è incombente nella libera storia di ognuno, e nella storia delle nazioni, il rischio dell’arresto, del blocco, del troncamento della trasformazione; il rischio di render vana la metamorfosi, di correre verso uno stato di derelizione e di abiezione.È il dramma del quale si fa lungo cenno nei canti X e XII del Purgatorio; dramma sostenuto dalla “superbia della vita”, uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione di una vera libertà, quella libera di volare verso in alto, verso ciò che è giusto (giustizia) senza impedimento.La superbia è una pulsione che verso l’alto (super) sembra tirare, ma in realtà fa precipitare verso il basso per difetto di portanza; la superbia crede di avanzare verso la libertà, invece retrocede verso la schiavitù:
“O superbi cristian, miseri lassi,che, de la vista de la mente infermi,fidanza avete ne’ retrosi passi,
non v’accorgete voi che noi siam verminati a formar l’angelica farfalla,che vola a la giustizia sanza schermi?
Di che l’animo vostro in alto galla,poi siete quasi antomata in difetto,sì come vermo in cui formazion falla?”(Purg., X, 121-129)
E ancora in Purgatorio XV – dove si denuncia il pericolo di una libertà rinnegata e degenerata verso strategie di lotta per la supremazia là dove “è mestier di consorte divieto” (conflitto d’interesse) (idem in Purg., XIV, 86-87: “o gente umana, perché poni ‘l core / là v’è mestier di consorte divieto?”) – ascoltiamo:
“Perché s’appuntano i vostri disiridove per compagnia parte si scema,invidia move il mantaco a’ sospiri.”(Purg., XV, 49-51)
I disastri sono iscritti nella voglia di realizzazione come autoaffermazione e “auto-theosis” (Par., XXVI, 115-117: “Or, figluol mio, non il gustar del legno / fu per sé la cagion di tanto essilio, / ma solamente il trapassar del segno”), nella voglia di libertà come “centro” di un sé che non si dona, ma esce da sé “di-versa” nel pensiero e “contro” nell’azione (paradigma di arakne e del black hole, del chaos), e che divora e distrugge.Quella voglia si fa ignara della necessaria “fisiologica” metamorfosi verso una giusta “muta”, che invece ne viene alterata, distorta, interrotta, frustrata: la regola interna è sostituita dall’anomia, la charis dall’odio, la benevolenza dalla violenza, l’operosità dalla presunzione, la luce dalla tenebra, l’intelligenza dalla follia, la vita dalla morte.
“Vedea colui che fu nobil creatopiù ch’altra creatura , giù dal cielofolgoreggiando scender da un lato
Vedea Briareo, fitto dal telocelestial, giacer da l’altra partegrave a la terra per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,armati ancora, intorno al padre loro,mirar le membra de’ Giganti sparte.
Vedea Nembròt a piè del gran lavoroquasi smarrito, e riguardar le gentiche in Sennaàr con lui superbi fuoro.
O Niobè, con che occhi dolentivedea io te segnata in su la strada,tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
O Saùl, come su la propria spada quivi parevi morto in Gelboè,che poi non sentì pioggia né rugiada!
O folle Aragne, sì vedea io tegià mezza ragna, trista in su li straccide l’opera che mal per te si fé.
O Roboàm, già non par che minacciquivi ‘l tuo segno; ma pien di spaventonel porta un carro, sanza ch’altri il cacci.
Mostrava ancor lo duro pavimentocome Almeon a sua madre fé caroparer lo sventurato addornamento.
Mostrava come i figli si gittarosovra Sennacherib dentro dal tempio,e come, morto lui, quivi il lasciaro.
Mostrava la ruina e ‘l crudo scempioche fé Tamiri, quando disse a Ciro:«Sangue sitisti, e io di sangue t’empio».
Mostrava come in rotta si fuggiroli Assiri, poi che fu morto Oloferne,e anche le reliquie del martiro.
Vedeva Troia in cenere e in caverne;o Iliòn, come te basso e vilemostrava il segno che lì si discerne!”(Purg., XII, 25-63)
Tutti esempi di rovina, di blocco, di naufragio della libertà. Alla base la cupidigia, e anche la propensione, spesso senza causa avvertita, verso un malinteso “principio del piacere” da soddisfare ad ogni costo; anche a costo di fallimento, di sopraffazione, di violenza:
“Esce di mano a lui che la vagheggiaprima che sia, a guisa di fanciullache piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla,salvo che, mossa da lieto fattore,volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,se guida o fren non torce suo amore.”(Purg., XVI, 85-93)
Infatti:
“«Né creator né creatura mai»,cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,o naturale o d’animo; e tu ‘l sai.
Lo naturale è sempre sanza errore,ma l’altro puote errar per malo obiettoo per troppo o per poco di vigore».”(Purg., XVII, 91-96)
E inoltre:
“Quinci comprender puoi ch’esser conveneamor sementa in voi d’ogne virtutee d’ogne operazion che merta pene.”(Purg., XVII, 103-105)
“È chi, per esser suo vicin soppresso,spera eccellenza, e sol per questo bramach’el sia di sua grandezza in basso messo;
è chi podere, grazia, onore e famateme di perder perch’altri sormonti,onde s’attrista sì che ‘l contrario ama;
ed è chi per ingiuria par ch’aonti,sì che si fa de la vendetta ghiotto,e tal convien che ‘l male altrui impronti.”(Purg., XVII, 115-123)
Perché:
“Oh cupidigia che i mortali affondesì sotto te, che nessuno ha poderedi trarre li occhi fuor de le tue onde!
Ben fiorisce ne li uomini il volere;ma la pioggia continua convertein bozzacchioni le sosine vere.
Fede e innocenza son repertesolo ne’ parvoletti; poi ciascunapria fugge che le guance sian coperte.
Tale, balbuziendo ancor, digiuna,che poi divora, con la lingua sciolta,qualunque cibo per qualunque luna;
e tal, balbuziendo, ama e ascoltala madre sua, che, con loquela intera,disia poi di vederla sepolta.
Così si fa la pelle bianca neranel primo aspetto de la bella figliadi quel ch’apporta mane e lascia sera.”(Par., XXVII, 121-138)
Tutto si sfalda al primo arrivo della tentazione, o della suggestione, o dell’incantamento magico, o come li si voglia chiamare. Il fatto è che: “O gente umana, per volar su nata, / perché a poco vento così cadi?” (Purg., XII, 95-96)
Il poeta, dunque, si trova a un certo punto in una situazione drammatica. La libertà, che pure è stata donata, la libertà che pure fa parte della sua natura, quella libertà non c’è più, deve essere ricercata. Il blocco è totale, mortale. È la selva oscura, sono le tre fiere:
“Nel mezzo del cammin di nostra vitami ritrovai per una selva oscuraché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa duraesta selva selvaggia e aspra e forteche nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più;ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,tant’era pien di sonno a quel puntoche la verace via abbandonai.”(Inf., I, 1-12)
Il sonno, la distrazione, l’assuefazione, la mancanza di senso critico, il politicamente corretto, anche oggi hanno condotto l’uomo nella selva oscura, e fino a una perversione dello stesso linguaggio.Si sono corrotte anche le parole, perché siamo tutti corrotti. Quasi nessuno intende più la libertà nel suo vero senso. Un mostro ha sostituito questa nozione.
Prima mostruosità del pensiero e del linguaggio: la libertà come sregolatezza, come assenza di regole esterne e interiori. Ci si sottopone a norme anche rigide per fitness, salute, bellezza; ma per “quel di più” per cui siamo “molto di più” di quel che crediamo di essere, per la sua bellezza e salute, nessuna regola.
Seconda mostruosa menzogna (se si vuole attenuare, si può parlare di autoinganno pilotato): si esercita la propria “libertà”, si agisce come più aggrada senza vincoli e senza obbligo alcuno: basta che non si entri in conflitto con la “libertà” altrui. Bello talmente, che sembra vero; ma è impossibile, è un’illusione: la sregolatezza è di per sé mancanza di regola, è “illimitata”, e dunque sarà sempre con il suo criterio che si stabilirà (o almeno si definirà) il confine tra i “contendenti”. Il conflitto è inevitabile, anzi fa parte del gioco. E il conflitto sarà fino allo scontro finale, fino alla prevaricazione, alla violenza, all’uccisione, se occorre. E la violenza rigoglia. Quanti femminicidi e quanto maltrattamenti ignoti sono sostenuti dalla libertà intesa come sregolatezza! E fanno pena – a non dir altro – i vari talk-show-isti (non saprei come chiamare questi ineffabili titolari del vano parlare e dal vano discorrere “titolati”) che alla libertà come mancanza di regole inneggiano e poi fingono di addolorarsi per i casi di violenza.
Terza menzogna: la moralità pubblica non deve avere nulla a che fare con la morale privata. È schizofrenia: il disonesto in privato tale sarà anche nel pubblico, e viceversa.
Le tre fiere dunque dominano. Dominarono e dominano, e minano: la lonza, il leone, la lupa. La lussuria, il potere, il denaro: dominano le società, stroncano la nostra “muta” sul nascere. E noi ci nascondiamo addirittura dietro la fallacia del linguaggio per occultare e assecondare i nostri disastri.Dante, al contrario, si accusa, prende atto e si congeda. Nel congedarsi comprende: la sua libertà è andata smarrita, come “la dritta via”, forse addirittura perduta, in un’infinità di sventure, di troncamenti, di naufragi. È l’incubo dell’Inferno, le cui voci già urlano al suo spirito, come la “bufera infernal che mai non resta”. L’Inferno è l’“eternalizzazione” del fallimento, della caduta, del blocco, dell’arresto verso la compiutezza (fallimento perfettamente riuscito). Capisce che deve invertire il vettore che lo trascina al fondo dell’abisso. È il “talento”, l’impulso degradato del “principio del piacere”.Quel talento che ha sottomesso la ragione di Paolo e Francesca, allorché l’eleutheria dell’innamoramento senza regole, se non quella – oggi regnante – che ad esso, in qualsivoglia forma, non si possa né si debba resistere, ha travolto la loro libertas di uomo e di donna responsabili.Eleutheria è il termine greco che indica la libertà, e la sua radice è forse legata ai misteri eleusini (Chantraine), e quindi a ritualità “orgiastiche” e “bacchiche”, incontrollate e incontrollabili. Libertas è invece il termine latino, e certamente ha a che fare con liberi (i figli), e dunque con un senso positivo di responsabilità da dare alle relazioni fondamentali.
“Intesi ch’a così fatto tormentoènno dannati i peccator carnali,che la ragion sommettono al talento.”(Inf., V, 37-39)
“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprendeprese costui de la bella personache mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,mi prese del costui piacer sì forte,che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.”(Inf., V, 100-106)
“Quando leggemmo il disiato risoesser basciato da cotanto amante,questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:quel giorno più non vi leggemmo avante.”(Inf., V, 133-138)
Il troncamento di ogni ulteriore possibilità è espresso anche verbalmente nella vicenda di Pier delle Vigne, l’uomo fatto “tronco” d’albero per aver reciso bruscamente da sé la propria vita, con uno scopo di fuga (“credendo con morir fuggir disdegno”) e senza alcuna prospettiva di ulteriore realizzazione:
“Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccialiberamente ciò che ‘l tuo dir priega,spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l’anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,s’alcuna mai di tai membra si spiega».
Allor soffiò il tronco forte, e poisi convertì quel vento in cotal voce:«Brievemente sarà risposto a voi».”(Inf., XIII, 85-93)Qui la mirabile soluzione poetica del contrasto tra “liberamente” e “incarcerato” segnala ancor di più il dramma di quest’uomo eternamente “troncato”.
La storia di Ulisse è esemplare per il contrasto tra libertas ed eleutheria. Ulisse è affascinato dal canto delle sirene (“Io son, cantava, io son dolce serena / che i marinai in mezzo mar dismago, / tanto son di piacere a sentir piena; / io volsi Ulisse del suo cammin, vago / al canto mio; e qual meco s’ausa / rado sen parte, sì tutto l’appago” – rivela la sirena perfida, la femmina balba, in sogno a Dante in Purg., XIX, 19-24). Ulisse è ammaliato dal nulla (“il mondo sanza gente”) che sta oltre il suo eroico desiderio illimitato di conoscenza, impossibile da soddisfare proprio perché illimitato, se pur così umano e naturale. Ulisse è folle (“de’ remi facemmo ali al folle volo”; e la follia viene rimarcata in Paradiso XXVII (82-83), allorché Dante, dall’alto – qui veramente dall’alto – osserva “di là da Gade il varco / folle d’Ulisse”).Dante teme che possa egli stesso ripetere l’esperienza del re di Itaca, che ha dissolto nel naufragio le sue dotazioni, tratto verso i gorghi dell’oceano dal “talento” che sottomette la ragione.
“Allor mi dolsi, e ora mi ridoglioquando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;sì che, se stella bona o miglior cosam’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi.”(Inf., XXVI, 19-24)
Mentre “eleuthericamente” insegue un sogno o forse un incubo, Ulisse fugge dalla libertas delle responsabilità, dalla libertà come realizzazione e offerta di un dono agli aventi diritto:
“né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ‘l debito amorelo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardorech’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,e de li vizi umani e del valore.”(Inf., XXVI, 94-99)
Vince l’eleutheria, e porta l’eroe al naufragio, al disastro compiuto di una storia che non avrà mai compimento, se non nell’“eternalizzazione” dell’incompiuto:
“«O frati», dissi «che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente,a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,non vogliate negar l’esperienza,di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:fatti non foste a viver come bruti,ma per seguir virtute e canoscenza».
Li miei compagni fec’io sì aguti,con questa orazion picciola, al cammino,che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,de’ remi facemmo ali al folle volo,sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polovedea la notte e ‘l nostro tanto basso,che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque racceso e tante cassolo lume era di sotto da la luna,poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, brunaper la distanza, e parvemi alta tantoquanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,ché de la nova terra un turbo nacque,e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;a la quarta levar la poppa in susoe la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».”(Inf., XXVI, 112-142)
La libertà si riconquista invertendo il verso del vettore del “talento” (vortice di energia negativa), prima scendendo fino a Lucifero, il suo “vertice”, e poi compiendo qui una mezza capriola, una mezza giravolta a centottanta gradi. È la presa d’atto definitiva, il congedo dalla schiavitù, l’accettazione dell’esodo sulle balze del Purgatorio, lungo le sue aspre assolate rocce, con le sue assetate e affamate vigilie, con i suoi ruvidi e oppressivi pesi, con i suoi neri fumi e i suoi roventi ardori. Ma è la via per la libertà, consolata dalla proclamazione delle beatitudini e dalle carezze degli angeli, rischiarata dall’azzurro del giorno e dal firmamento lucente della notte.Quand’è che l’anima comprende che la sua restitutio ad integrum è finita? Quando quel vettore, quel “talento”, rinnovato, e posto, e “caricato a tempo” da Dio, perché accolto con gioia nella metanoia, e che ora la tira con forza verso l’alto mentre la “co-stringe” alla sosta riabilitante nelle singole cornici (una o più d’una), forzando la sua stessa volontà e libertà (vortice di energia positiva), ha esaurito la sua funzione, e dunque la sua energia e la sua presa. Lo spiega un’anima appena liberata che i due poeti incontrano: è il poeta latino Stazio, il quale così illustra quanto accade per il rinnovarsi della libertà, per essere di nuovo in grado di proseguire nella grande “muta” che continuerà eternamente nell’Empireo:
“Prima vuol ben, ma non lascia il talentoche divina giustizia, contra voglia,come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son giaciuto a questa dogliacinquecent’anni e più, pur mo sentiilibera volontà di miglior soglia”.(Purg., XXI, 61-69)
E proprio nell’Empireo Dante, nuovamente figlio della libertà, potrà esclamare all’indirizzo di Beatrice, il cui intervento (sollecitato da Maria e poi da Lucia), lo ha liberato:
“O donna in cui la mia speranza vige,e che soffristi per la mia salutein inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose quant’i’ ho vedute,dal tuo podere e da la tua bontatericonosco la grazia e la virtute.
Tu m’hai di servo tratto a libertateper tutte quelle vie, per tutt’i modiche di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,sì che l’anima mia, che fatt’hai sana,piacente a te dal corpo si disnodi”.(Par., XXXI, 79-90) •