Riaprire la porta in Fase 2.
Durante i giorni della Pandemia ripensavo ogni tanto alla storia del popolo di Israele e al tempo del suo esilio in Babilonia. In terra straniera questo popolo non aveva più un tempio in cui celebrare, ma un “resto” ha tenuto viva la sua fede meditando la Parola di Dio e pregando, attraversando il dolore legato a questo dramma. Forse il tempo del lockdown ci ha consegnati ad una situazione analoga: ognuno di noi disperso nella propria casa, nelle proprie ansie, preoccupazioni, angosce, nell’impossibilità di poter celebrare comunitariamente nelle nostre Chiese e dovendo rinunciare a diverse abitudini, anche sane e piacevoli.
Lo abbiamo fatto nella responsabilità sentita gli uni verso gli altri, con il pensiero rivolto alle vittime di questa pandemia, alle famiglie colpite da questi lutti, alle tante persone che ogni giorno rischiavano la vita per garantirci il necessario, con la consapevolezza che la vita è il bene supremo e fragile da proteggere.
Ora nella fase 2 arriva il momento in cui possiamo uscire dall’isolamento e cominciare a ritornare ad una vita più ordinaria. Dal 18 Maggio abbiamo ripreso le celebrazioni comunitarie nelle nostre Chiese: forse qualcuno si aspettava un afflusso maggiore di persone ma ha fatto i conti con una bassa affluenza.
Nel poter riprendere il cammino probabilmente ci ritroviamo con le mani fiacche e le ginocchia vacillanti, con il cuore smarrito nel dolore e bisognoso di consolazione, come ci hanno ricordato l’ascolto e la riflessione portati avanti da questo giornale insieme all’Ufficio diocesano per la Pastorale della salute, vita e bioetica. Forse in questo momento ci è chiesta la pazienza di ricostruire la nostra vita di persone, la comunità cristiana, il tessuto sociale.
Più che il numero di persone che hanno partecipato domenica all’Eucaristia, può essere significativo il numero dei volontari che nelle nostre parrocchie si sono resi disponibili per preparare i luoghi e accogliere le persone nel rispetto del protocollo di sicurezza: grazie a loro forse comprendiamo che la Messa non è un rito fatto dal prete di cui siamo spettatori, ma un sacramento celebrato dalla comunità che a sua volta edifica la comunità nella vita quotidiana, soprattutto nell’accompagnamento e nell’inclusione di quelle situazioni di maggiore solitudine, difficoltà e sofferenza che ora verranno alla luce, provocate o aggravate da questa pandemia.
Il cristiano, oggi più che mai, è la persona che vive con gli occhi rivolti al cielo e i piedi ben piantati per terra.
Egli cerca Dio, ascolta la sua Parola, invoca lo Spirito, prega, si affida alla grazia che viene dall’alto per rendere testimonianza alla verità dell’amore in questo mondo e in questo tempo, misurandosi con la nostra comune ed estrema fragilità, assumendosi la responsabilità di prendersi cura della propria e altrui vita rispettando le norme ancora necessarie per questo, esercitando particolare ascolto, attenzione e compassione nei confronti di chi vivrà maggiore fatica a ripartire nel lavoro, nella salute, nelle relazioni, in una condizione dignitosa. •