Immaginate “l’augello, intra l’amate fronde, / posato al nido de’ suoi dolci nati / la notte che le cose ci nasconde, / che, per veder li aspetti disiati / e per trovar lo cibo onde li pasca, / in che gravi labor li sono aggrati, / previene il tempo in su aperta frasca, / e con ardente affetto il sole aspetta, / fiso guardando pur che l’alba nasca” (Dante, Par., XXIII, 1-9). Immaginate gli implumi che attendono, sicuri delle cure di chi li ha generati. Immaginatevi sorpresi dalla bellezza di un mattino di maggio e dalla carezza della natura, quasi un’ala confusa con il fremito della brezza, provando ciò che provò il poeta: “E quale, annunziatrice de li albori, / l’aura di maggio movesi e olezza, / tutta impregnata da l’erba e da’ fiori; / tal mi senti’ un vento dar per mezza / la fronte, e ben senti’ mover la piuma, / che fé sentir d’ambrosia l’orezza”. (Dante, Purg. XXIV, 145-150).
Immaginatevi sorpresi da una fitta dolente, udendo lo sparo ripetuto di un fucile da caccia, mentre la morte, inutile, ghermisce una libertà librata nel sole. Immaginate! Immaginate! Immaginate! Immaginatevi, o ricordate, gli occhi belli nei quali un giorno vi siete specchiati, come in un lago di divine essenze, e che hanno sussurrato alla vostra “anima: sospira!” (Dante, Vita Nuova). Immaginate che la donna alla quale avete desiderato ardentemente di donare voi stessi, vi racconti, con le pupille scintillanti d’emozione, che una meraviglia sta sbocciando nel suo grembo; e immaginate che una felicità imprevista, totale, invincibile, vi afferri, sentendo in quel preciso momento che siete improvvisamente trasformati (trasfigurati) da figli in padri, e che da quell’istante la vostra esistenza dipende, perché sia piena, da quel minuscolo miracolo che non sapete spiegarvi.
Immaginate, o ricordate, se siete donna, la percezione di far parte di un mistero più grande di voi e la beatitudine possibile che vi ha soggiogato straripando. Immaginate, o ricordate, gli occhi profondissimi del vostro piccolo, sorridente o strepitante o piagnucolante, provenienti, al pari di un’icona, nella loro luce, da una genesi e da una realtà il cui punto di fuoco e di prospettiva si colloca a una distanza inattingibile. Immaginate anche, perché non siamo illusi, la nostalgia infinita delle separazioni, sofferte o solo prefigurate, e avrete la riprova di quanto sia bella e desiderabile quell’esperienza tanto certa quanto indefinibile che chiamiamo vita.
Nell’universo questo strano fenomeno, che ha tutte le sembianze di sconfinare (trascendere?) verso un Grande Altrove, riassume in sé tutti i fenomeni che gli sono preliminari. Ed è strana questa cosmica facoltà evolutiva nel corso della quale ogni stadio può essere “letto”, anche se non del tutto “decifrato”, a partire da quelli che lo precedono, ma non può esserne dedotto o previsto. La vita e l’intelligenza sono le ultime novità di un mondo che appare proteso verso una discontinuità che ha le sembianze di un orizzonte aperto. E, anche se non vogliamo credere, dobbiamo ammettere, con Eddington, che “qualcosa” che non conosciamo sta facendo non sappiamo cosa, ci sta “spingendo” verso non sappiamo dove. Dove? Certamente in una società che ha degradato l’economia (il governo della casa) a puro profitto, a profitto affamatore e omicida, e che nel momento dell’indigenza preferisce saturare le bramosie dei più forti piuttosto che venire incontro ai bisogni dei più deboli; in una società che educa tutti a diventare buchi neri che divorano energia, e non sorgenti che irraggiano luce e calore; in una società siffatta è arduo credere (ancora) nella vita. E tanti, in effetti, non ci credono più.
A ciò si aggiunga la sfiducia, non più arginata, derivante dai paradossi e dai limiti della vita stessa, che la rendono così fragile nella realtà e, soprattutto, alla vista, anche per la patologia dello sguardo che affligge il nostro spirito. Ma quel “qualcosa” o quel “Qualcuno” che non conosciamo e che ci sta portando verso non sappiamo dove, continua a crederci. E ci crederà finché non avrà terminato il suo progetto.
San Tommaso d’Aquino – mi è capitato di leggere – sosteneva che il Figlio si è incarnato per i nostri peccati, e che se non ci fosse stato il peccato l’incarnazione non sarebbe stata necessaria. Di sicuro è vero; ma non mi basta. La mia sarà una concezione ingenua, ma io credo che il Figlio si è incarnato perché, essendo la Vita, è innamoratissimo della vita. E forse la vita stessa l’ha creata per farsi coccolare da una mamma, per perdersi nello specchio dei suoi occhi, e per donare a lei la felicità di specchiarsi negli occhi pargoletti di Dio. Se è così, qualsiasi vita è salva, qualsiasi vita è grande, qualsiasi vita è degna di essere vissuta e amata. E non c’è forse Dio nella profondità dello sguardo di qualsiasi bimbo, nel quale tutte le mamme possono specchiarsi? Se vi pare strana questa storia di sguardi, andate al canto XXXIII del Paradiso, l’ultimo della Divina Commedia, il più grande inno alla vita che sia mai stato umanamente cantato, composto da uno che di vita se ne intendeva, e conosceva bene anche i suoi contrari. “Gli occhi da Dio diletti e venerati”: così si legge degli occhi di Maria. E chi è che ama, brama e venera gli occhi di una donna, se non lo sguardo affamato d’amore del suo bimbo, con i suoi occhioni lucenti e infiniti? •
Giovanni Zamponi