Povera e nuda vai filosofia

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ateneOltre la religione, la filosofia. Ebbene, ma quale filosofia? Ché se la filosofia fosse davvero filosofia, cioè amore autentico per la saggezza, per la conoscenza e, in ultima istanza, per l’interpretazione laboriosa del mondo, non avrei molto da temere da questa di-vagazione. Ho sempre ritenuto che l’imperativo del libro della Genesi – coltivate la terra e assoggettatela – possa essere inteso anche come: salite sopra la terra e guardate oltre, dalla sua vetta guardate in alto! Ma per guardare in alto occorre lo sforzo di tutta la persona: con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze.

E senza barare, senza mentire a se stessi, senza ritenere che basti solo la ragione, o lo stesso intelletto, vittime, non di rado, di pulsioni, di volontà di apparire, e anche di desiderio di disimpegno: “Voi non andate giù per un sentiero / filosofando: tanto vi trasporta / l’amor de l’apparenza e il suo pensiero!” (Dante, Par., XXIX, vv 85-87); e anche: “ché quelli è tra li stolti bene a basso, / che sanza distinzione afferma e nega, / ne l’un così come ne l’altro passo; / perch’elli ’ncontra che più volte piega l’oppinion corrente in falsa parte, / e poi l’affetto l’intelletto lega”. (Dante, Par., XIII, vv 118-123). Per la cognizione che ne ho, credo che nella filosofia corrente manchi un atteggiamento di complessiva onestà intellettuale, e forse morale; e ciò rende la filosofia stessa un pessimo modo di persuasione sofistica al servizio di intenti e di passioni e di orientamenti della pubblica opinione che nessun onore fanno ai titolati protagonisti del dibattito dei giorni e degli anni attuali.

Debbo ancora incontrare un qualche filosofo che, timoroso delle sue conclusioni, cercate in buona fede, entri nel dramma di una nuova faticosa riflessione con conseguente cambiamento di rotta – e la rettitudine di qualcuno, ad esempio di Flew, non vanifica questa considerazione. Qualcuno, insomma, come il Sigieri di Brabante posto da Dante nel cielo del sole, che, angosciato dagli “invidiosi veri” ai quali lo conducevano i suoi sillogismi, non rinnegò la sua ricerca, ma certo ne dubitò e se ne discostò quasi turbato (“essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel Vico de li Strami, / sillogizzò invidiosi veri”. Par., X, vv 136-138).

Ma il peggio non è questo. Il peggio è che le peggiori filosofie – e sono le più rappresentate, le più pubblicate, le più pubblicizzate, le più riverite, le più analizzate senza contrasto, le più sponsorizzate, le più patinate, le più ascoltate – non si battono alla pari nei loro alti certami, magari un po’ aulici e accademici, con le buone filosofie. No, oggi vanno a colonizzare, in modo disinvolto e dissoluto, l’analfabetismo non più illetterato che sta dilagando. Un analfabetismo assai più greve e pericoloso di quello illetterato contro il quale si è combattuto nell’ultimo secolo, auspicando, forse troppo ingenuamente, di poter trasformare una società di analfabeti in una società di saggi. Indagini sociologiche recenti, pubblicate qualche tempo fa da La Civiltà Cattolica, indicano che ormai solo circa un terzo della popolazione riesce a comprendere un testo di media difficoltà. Alle prese con qualche più impegnativa proposta che fa questo terzo? E ancora, che oltre settanta persone su cento hanno problemi a esprimersi in modo sufficientemente corretto.

Un’ “ignoranza attiva”, come dice Goethe, che si fa sempre più agguerrita e pervadente, complici scaltri e interessati i mezzi di informazione, diventati ormai solo strumenti di disinformazione e di pubblicità; e complice, soprattutto, la rete, la quale, utilizzata sempre più a sproposito e “senza rete”, sta facendo terra bruciata di ogni buon intento culturale e morale. È ovvio che non è la rete in sé il male, ché nella rete si trova anche molto di buono, ancorché nascosto, ancorché di non facile ricerca: il male è che è in mano ad analfabeti, come un’automobile in mano a chi non sa distinguere quasi nulla. Di qui la necessità di un nuovo monachesimo, di un nuovo silenzio, di un nuovo Ora et labora; di un nuovo tentativo di alfabetizzazione e di conservazione del buono ben più impegnativo di quello profuso dal monachesimo che fece seguito alla caduta dell’impero romano. In questa temperie di dissolvimento generale, la filosofia, generalmente pronta a trasferire nel proprio ambito i risultati contingentemente provvisori e metodologicamente limitati della scienza, e trasformata in chiacchiera mediatica indistinta, anche in virtù dell’ostentata preferenza per una razionalità opzionale e procedurale, assunta cioè qual puro gioco logico e logico sviluppo di posizioni assiomatiche indistinguibili nella loro legittimità, viene incontro insidiosissimamente al desiderio, sempre esistito, ma ora fattosi patologico, di scegliere di pensare come più aggrada, e altrettanto di fare.

È una falsa libertà, una falsa autonomia, ma tant’è. Ne sia d’esempio tutta quell’imperante pseudo-filosofia che ormai governa incontrastata le opinioni circa il significato da dare alle acquisizioni della scienza biologica e alle relazioni umane fondamentali. Va da sé che la religione, che impegna l’essere umano nell’ambito del limite di una sana dipendenza da qualcosa che lo supera, che lo impegna con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutta l’intelligenza, con tutta la ragione, insomma con tutta la vita, si trovi in difficoltà a proporsi e a raccogliere convinte sequele.

Ma l’uomo è sempre uomo, e da sempre; il suo desiderio d’infinito non sarà certo riempito dalle chiacchiere vacue e dalla ricerca continua di soddisfazioni sempre più insoddisfacenti. Quello di cui c’è bisogno è forse la testimonianza di un modo nuovo di offrirsi; un modo che sia più attento alla vita e meno alla chiacchiera, più amante del silenzio (come va ripetendo Pierangelo Sequeri) che del dibattito, più affascinato dalla mistica che dal ragionamento, più aperto alla teologia della bellezza che alla bellezza della teologia. •

Giovanni Zamponi

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