L’insieme di questi fenomeni sta a indicare la presenza in molti consumatori di un crescente desiderio di mangiare cibi non troppo inquinati, preparati secondo le ricette del buon tempo antico. C’è, poi, la decisione di dedicare l’Expo 2015, che si terrà a Milano, al tema dell’alimentazione. Ci si propone, in tal modo, di accreditare l’Italia come paese leader nel campo della produzione eno-gastronomica. L’espandersi del mercato dei prodotti locali di eccellenza ha consentito a molte aziende medio-piccole della nostra zona di crescere, e di farsi conoscere in Europa, in America, in Russia, e, ultimamente, in Cina. Si sono consolidate, così, aziende che con i loro vini, la loro pasta, i loro salumi, le loro carni, i loro formaggi, i loro dolci, hanno non soltanto contribuito alla creazione di nuovi posti di lavoro nel nostro territorio, ma hanno fatto conoscere la nostra zona in Italia e all’estero, determinando, così, benefici effetti sul turismo locale. In questo clima di fascinazione per l’arte culinaria e il cibo di qualità vanno moltiplicandosi corsi di cucina per grandi e bambini, come pure manifestazioni in cui ristoratori e chef illustrano le loro specialità, che, molto spesso, sono rivisitazioni o riproposizioni di prodotti e di ricette di quella che viene definita come la “cucina povera”.
Tutto ciò costituisce un fenomeno positivo che ha benefici effetti sull’economia locale e contribuisce alla riscoperta delle nostre tradizioni. Occorre anche dire, però, che in questo vasto e variegato movimento di valorizzazione delle tipicità dell’eno-gastronomia locale sono presenti alcuni elementi che destano perplessità. C’è il rischio, in primo luogo, di fare dell’Italia il paese di “pizza e mandolino”, di un idillio agro-pastorale, di farne cioè un paese in via di progressiva de-industrializzazione, avviatosi, con felice inconsapevolezza, a divenire un paese in via di sottosviluppo, che, disperatamente, cerca la propria salvezza puntando unicamente sull’agro-alimentare e sul turismo. Inoltre, suscita un qualche fastidio l’alto tasso di affabulazione presente nei discorsi di molti chef e ristoratori, che decantano il fatto che i loro menu ripropongono piatti della “cucina povera” di una volta. Non si accorgono che il decantare l’alto tasso di “povertà” presente nei piatti da essi proposti fa di loro una sorta di nuovi Robin Hood a rovescio, che “prendono ai poveri per dare ai ricchi”. Fanno infatti del mangiare un atto edonistico finalizzato unicamente a un godimento di cui, di fatto, può avvalersi soltanto un ristretto numero di consumatori benestanti che possono permettersi il lusso di gustare piatti “poveri”.
Nei discorsi ampollosi che accompagnano la presentazione di piatti e di alimenti che sono stati il frutto della creatività di persone che a fatica riuscivano a sfamarsi c’è uno stridente connubio tra tradizione e consumismo edonistico. Ciò che nacque dal bisogno e dalla necessità viene trasformato in prodotto di intrattenimento e di godimento. La cosa non può non destare perplessità, perchè la fetta del ciauscolo fatto con le proprie mani, mangiata dai nostri antenati dopo una giornata di durissimo lavoro, è tutt’altra cosa rispetto alla fetta di ciauscolo consumata in un ristorante di lusso, dopo essere stata decantata dalle parole alate di un cameriere ammaestrato. C’è, infine, un problema enorme che pesa sul nostro modo di mangiare e di nutrirci. Il filosofo Ludwig Feuerbach in una frase divenuta famosa sentenziò: “L’uomo è ciò che mangia”. Questa frase è in gran parte vera. Noi siamo infatti anche ciò che è contenuto negli alimenti che ci nutrono. Occorre onestamente riconoscere, in tal senso, che nei cibi che mangiamo è depositato un tasso elevatissimo di violenza e di crudeltà, che, al di là della nostra inconsapevolezza, ci qualifica come esseri feroci, il cui benessere ha prodotto, oltre a quelle umane, altre due vittime: la terra e gli animali.
La terra, scrive il grande pensatore Martin Heidegger, è stata “sfiancata” dall’agricoltura industriale, che l’ha mutata in materiale inerte incapace di generare vita senza l’erogazione sempre più massiccia di concimi e agenti chimici. Gli animali, a loro volta, chiusi in capannoni di sterminio, o recintati in più ridenti e gradevoli spazi aperti, sono stati trasformati in esseri da macello, in vite votate a morti orribili per deliziare il nostro palato. Eliminare questa violenza è un problema enorme che pesa sul futuro dell’alimentazione umana. Non siamo più infatti nel Neolitico, periodo in cui gli uomini, per procurarsi proteine, si vedevano costretti, a volte con sgomento, a uccidere animali che vivevano in simbiosi con loro. Da ragazzo mi è più volte capitato di vedere persone che piangevano a dirotto il giorno in cui veniva ucciso il maiale che avevano accudito e nutrito per quasi un anno. Nel passato quella crudeltà era giustificata. Oggi molto meno.
Per questo si fa del tutto per occultare la violenza e la crudeltà legate all’allevamento industriale e all’uccisione seriale di buoi, maiali, agnelli, tacchini, polli, conigli, anatre. Non si vuole vedere. Ciò basta a tranquillizzare tutti. Urge, quindi, superare un approccio al cibo, e alle problematiche a esso connesse, non comandato dalle nostalgie passatiste dei tradizionalisti e dei cantori dell’antico gusto, oppure egemonizzato dai linguaggi untuosi di chef, ristoratori, esperti culinari, il cui unico obiettivo è massimizzare il piacere dei palati di clienti ben paganti. Occorrerebbe, a tal fine, disegnare un nuovo scenario della nutrizione umana che eviti di “sfiancare” la terra, e non si limiti a identificare la vita di esseri sensienti come maiali, agnelli, buoi come vita di animali che sono semplicemente “carne da macello”. Per far ciò è necessaria una svolta radicale nei nostri modi di pensare e di sentire. Una svolta difficile da realizzare, perché siamo troppo attaccati a inveterate abitudini alimentari, e siamo troppo condizionati, inoltre, dalle retoriche degli antichi saperi, o dalle affabulazioni edoniste sugli antichi sapori. •
G.Filippo Giustozzi