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Un luogo comune d’incontro

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foto (8)Gli immigrati «sono parte della soluzione, non parte del problema. Tutti coloro che sono impegnati per il futuro dell’Europa, e della dignità umana, dovrebbero quindi prendere posizione contro la tendenza a fare degli immigrati il capro espiatorio dei problemi sociali. In questo ventunesimo secolo, gli emigranti hanno bisogno dell’Europa. Ma anche l’Europa ha bisogno degli emigranti. Un’Europa chiusa sarebbe un’Europa più mediocre, più povera, più debole, più vecchia. Un’Europa aperta sarà un’Europa più equa, più ricca, più forte, più giovane, purché sia un’Europa che gestisce bene l’immigrazione».

Così parlava il Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan davanti al Parlamento Europeo riunito a Bruxelles nel gennaio 2004. Sono trascorsi ben undici anni da questo appello, eppure il clima e la difficoltà nella gestione dell’immigrazione non sembra essere cambiato. È sempre una questione di punti di vista: bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, giusto o sbagliato, problema o opportunità. I piatti della bilancia pendono o da una parte o dall’altra. Difficile raggiungere un equilibrio. A noi comunque, piace prendere il lato positivo delle cose per saper trarre, da ciò che a prima vista sembra un problema, una preziosa opportunità. Soprattutto ci piace stare dalla parte dei poveri, perché il contatto con loro in qualche modo ci salva.

Ci salva dalla sclerosi mentale e del cuore, dal pericolo dell’imborghesimento e dalla paura, che ci fa chiudere in noi stessi e non ci fa vedere oltre la punta del nostro naso. Il tema immigrazione, come tutti i gradi temi sociali, è vasto e di difficile risoluzione. Sono molteplici infatti gli aspetti da prendere in considerazione e anche in questo caso è importante evitare le semplificazioni e ridurre il problema in semplici slogan ad effetto. Anche qui a Fermo, nei nostri quartieri, di frequente ci si imbatte in discorsi accesi sul tema. Da quando l’11 aprile scorso l’Arcivescovo Mons. Conti ha dato la disponibilità ad aprire una Casa d’accoglienza per rifugiati/richiedenti asilo presso i locali del Seminario di Fermo, anticipando l’esplicita richiesta di papa Francesco ad aprire le porte di strutture ecclesiastiche all’accoglienza, nel quartiere ci troviamo spesso a dover rispondere alle domande curiose della gente circa i cosiddetti “profughi”, i migranti del mare che dai barconi fantasma visti in tv approdano nei “nostri” quartieri, abitano le “nostre” case, percorrono le strade delle “nostre” città.

Perfino stamattina una vicina, venuta a bussarci alla porta per portare un po’ di vestiti, ha chiesto preoccupata notizie sui “ragazzi del seminario”: ma che cosa fanno tutto il giorno? È vero che li pagano? Ma perché non se ne tornano da dove sono venuti dato che manca il lavoro anche per i nostri figli? Sono questi i soliti cliché. È sempre molto difficile tracciare i confini tra le categorie noi/nostro e loro, e i diritti a queste correlati. Non dobbiamo meravigliarci: “nulla di nuovo sotto il sole” dice Qoèlet.

E anche oggi di fronte a problematiche come questa, gli uomini, sempre più afflitti da perdite di memoria, reagiscono facendosi prendere dall’ansia di conservazione e di difesa, affannandosi a costruire inutili muri o probabili ponti, purché levatoi! Per quanto ci riguarda, per noi che abbiamo avuto la possibilità di assumere un punto di vista interno, seppur limitato, ma pur sempre un punto di vista che parte da un’esperienza diretta, fatta di quotidiano, di scambio di vite, di storie e di volti, ci limiteremo appunto a portare la nostra esperienza, non volendo assolutamente tracciare un quadro completo e definitivo del tema, ma provando semplicemente a dire la nostra. La nostra storia si può riassumere con l’immagine di un ponte in cui “noi” e “gli altri” hanno trovato un luogo comune d’incontro.

Certo, non privo di difficoltà, ma un luogo in cui le parole chiave sono scritte su un cartello a doppio senso: dialogo, riconoscimento e ospitalità. Tutto ciò prende le mosse dalla consapevolezza della profonda connessione esistente tra gli esseri umani e dalla riscoperta del vero significato della parola “prossimo”, ovvero colui che è più vicino e che attende, ancor prima di gesti di aiuto e di solidarietà, il semplice riconoscimento della propria esistenza e dignità.

Abbiamo costruito insieme uno spazio nel quale ciascuno ha la possibilità di essere riconosciuto per quello che è: un essere umano con la sua dignità, i cui diritti vanno ben oltre quelli del vitto e dell’alloggio.

Così Buba, 25 anni, insegnante d’inglese proveniente da Gambia, costretto a scappare dal proprio Paese per aver contestato e denunciato la politica scorretta del regime del dittatore, raccontando della sua esperienza di migrante in Italia, si sorprende del fatto che la gente per strada, a Fermo, quando lo incontra, non gli risponde al saluto. O peggio. Solo con riluttanza qualcuno gli stringe la mano: «La prima volta che siamo arrivati – afferma – ho pensato che fosse normale dare una stretta di mano ad una persona qualunque incontrata per strada o scambiare con lui o lei una parola di saluto come il famoso “ciao” (che è stata la prima parola che ho saputo pronunciare in italiano)». D’altra parte all’episodio di Buba se ne aggiungono altri ben più positivi, che affondano le radici nel terreno di quel dialogo che diventa capace di innescare una serie di dinamiche positive, che aprono a speranze di costruzione di un quotidiano diverso, trasformando le presunte minacce in occasioni preziose di verifica di noi stessi, della nostra cultura e dei nostri valori.

Fin da subito abbiamo desiderato costruire non un luogo prefabbricato sulla base delle nostre concezioni o punti di vista. L’idea è stata invece quella di uno spazio co-costruito insieme alle persone che lo avrebbero abitato, nel quale ciascuno avrebbe avuto la possibilità di essere riconosciuto per quello che è: un essere umano in tutta la sua dignità, i cui diritti vanno ben oltre quelli riconosciuti come basilari come vitto e alloggio. Il nostro modus operandi è risultato chiaro fin da subito: non un’accoglienza di assistenzialismo, ma di promozione umana e vera solidarietà. Perché è la persona ciò che ci sta a cuore, con tutto il proprio bagaglio personale: provenienza, cultura e religione. Le iniziative, create in un primo momento ad hoc per favorire l’integrazione dei ragazzi nel territorio (come i tirocini formativi non retribuiti in convenzione con il Comune o la scuola di italiano) hanno preparato il terreno affinché i ragazzi stessi emergessero ed esprimessero i propri talenti e capacità. Iniziative come il giornalino “Le voci del mondo” sono uno dei frutti più belli; così come il laboratorio di cucito dove Said, giovane sarto proveniente dal Togo, ha la possibilità di continuare a svolgere il proprio mestiere.

Oppure il laboratorio del riciclo nel quale si sono trasformati materiali inutilizzati come pneumatici o cassette della frutta in colorati componenti di arredo per la stessa casa. Negli ultimi mesi l’ equipe che si occupa della gestione del centro di accoglienza è maturata e cresciuta, grazie all’esperienza acquisita nel corso di quest’anno, ma soprattutto grazie al contributo degli stessi ragazzi, che da “accolti” sono diventati a loro volta responsabili di alcuni settori importanti della casa: dalla lavanderia alla cucina, dalla vigilanza notturna alla mediazione culturale con i neo arrivati, tanto che in questi ambiti la struttura è diventata capace di autogestirsi. La casa continua ad essere un grande porto dove attraccano continuamente persone, 160 dall’apertura ad oggi.

Nonostante si continui a gestire situazioni di emergenza, connotate di per sé da un’estrema variabilità e instabilità, la struttura si prepara ad accompagnare i ragazzi in percorsi che si protraggono oltre l’anno, a causa soprattutto della lentezza della macchina burocratica dalla quale dipendono le loro vite e il loro futuro. Da parte nostra, spendere tempo ed energie in un’ospitalità “a tempo determinato”, non risulta essere una “perdita di tempo”, bensì un investimento e un’occasione di crescita, anche se forse non saremo noi a vederne i frutti. Quello che sperimentiamo ogni giorno è la sfida dell’incontro tra identità che nel riconoscersi vicendevole danno vita a nuove storie, a nuove opportunità. Così giorno dopo giorno impariamo che l’identità nel confronto con l’altro non si perde, ma si qualifica. E che aprire le porte non ci impoverisce, al contrario, ci rimette in gioco e ci rinnova nell’incontro con il diverso, con l’altro con lo straniero, nei cui occhi è possibile riconoscere ciascuno di noi. •

Sorella Rita e l’équipe della Casa di accoglienza

About Tamara C.

Direttore de La Voce delle Marche

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