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Cosa significa nell’era del post-umanesimo seppellire i morti

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Come annota Mario Fubini, per poesia sepolcrale si intende una forma poetica sviluppatasi tra il XVIII e il XIX secolo, nella quale i temi legati alla sepoltura hanno una presenza essenziale, e si collegano ai temi della notte, della rovina. Non fu estranea a tale sviluppo la contemporanea modificazione dell’assetto dei cimiteri verso la forma attuale. Ricordiamo che il nascente romanticismo andava coltivando una sensibilità assai diversa dalla sensibilità neo-classica e da quella del periodo razionalizzante dei lumi. La nuova sensibilità amava il misterioso nella natura, il gotico nell’arte, l’ossianico nell’esistenza, il turbolento e turbato e l’irrazionale nell’ispirazione, i sentimenti oscuri talvolta, e lugubri e melanconici, il pessimismo; ma anche le speranze illusorie o ritenute tali. Possiamo ricordare E. Young con il suo lungo poema didascalico e autobiografico The Complaint: or Night Thoughts on Life, Death and Immortality (Il lamento: o pensieri notturni sulla vita, la morte e l’immortalità), e R. Blair con The Grave (Il sepolcro), ma l’opera di gran lunga migliore e più rappresentativa del movimento è la celebre Elegy Written in a Country Churchyard (Elegia scritta in un cimitero di campagna) di T. Gray, che in Italia ebbe grandissima risonanza su poeti come I. Pindemonte, U. Foscolo e G. Leopardi (nei due canti Sopra un bassorilievo sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna). E possiamo annoverare la trasposizione poetica del Bertola (lo Young italiano) del sepolcro campestre di Poussin.

Ma se questa è la definizione “letteraria” e critica della poesia sepolcrale, con la sua contestualizzazione storica, detta contestualizzazione e delimitazione cronologica non esaurisce di certo il tema poetico del cimitero, della morte, del monumento al trapassato che rammemora colui che fu vivo; dell’interrogarsi di chi contempla la realtà dell’essere e del nulla al cospetto del desiderio di vita che fiorisce nel cuore dell’uomo e insiste a non volere estinguersi pur di fronte alla constatazione dell’inesorabilità della fine.

Forse il rito della sepoltura, che accompagna l’umanità dai primordi, dalle inumazioni alle cremazioni, dalle grandi costruzioni destinate all’ammonizione della coscienza e della memoria (monumenti) – le piramidi, ammesso che fossero sepolture; i mausolei, tra i quali quello di Mausolo di Alicarnasso o quello di Adriano a Roma (ora Castel Sant’Angelo) – alle opere disseminate lungo le antiche vie (a Roma la Via Appia Antica), è stato vissuto e praticato con una grande segreta nostalgia anticipatoria: è possibile che una tomba, alla fine, sia ritrovata vuota? Nostalgia rimasta tale, e delusa, ma sempre insistente, fino a che una tomba è stata trovata – dicono – davvero vuota: resurrexit! Il Sepolcro di Cristo! Talmente incredibile quella storia così attesa che non riusciamo a crederci, ma talmente attesa che non riusciamo a spegnerla, almeno dentro la parte più arcana del nostro essere. La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso è dedicata proprio a questa vicenda, ed è significativo il paragone spontaneo tra il Sepolcro di Cristo e il sepolcro nella foresta della giovane Clorinda, amata da Tancredi e da lui uccisa in duello (amore e morte!).

Volendo continuare a cercare amici poeti sgomentati, attratti, pessimisti, fiduciosi di fronte al mistero del sepolcro, una schiera innumerevole di protagonisti ci accompagna dall’antichità ad oggi. Escludiamo tuttavia con decisione coloro che, in una società necrofila e “thanatophila” qual è l’attuale (Francesco Lamendola), inneggiano alla morte con la fosca e disperata baldanza di chi crede solo nel male, pago di condividere la sua orribile vittoria.

Tenerissima, dal primo secolo avanti Cristo, ci giunge l’elegia di Catullo, che racconta di un viaggio nella Troade cercando la tomba del fratello: “Multas per gentes et multa per aequora vectus / advenio has miseras, frater, ad inferias, / ut te postremo donarem munere mortis / et mutam nequiquam alloquerer cinerem.” (Di gente in gente, di mare in mare ho viaggiato, / o fratello, e giungo a questa mesta cerimonia / per consegnarti il funereo dono supremo / e per parlare invano con le tue ceneri mute).

E questo fa subito risaltare alla memoria il sonetto di Ugo Foscolo In morte del fratello Giovanni, dove il poeta narra della vecchia madre che parla con le sue smorte e vane ceneri: “Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo / di gente in gente, mi vedrai seduto / su la tua pietra, o fratel mio, gemendo / il fior de’ tuoi gentili anni caduto. / La Madre or sol suo dì tardo traendo / parla di me col tuo cenere muto”. Ed è sempre il già citato Foscolo che nel sonetto Alla sera sogna la pace della morte come approdo e quiete definitivi.

Non crede, il poeta di Zacinto e Venezia, ad alcuna ipotesi di soluzione positiva della vicenda umana, ma non può rinunciare all’illusione che una scia di “amorosi sensi” leghi la vita dei nostri trapassati alla nostra, e che la sacra e ornata memoria di chi non c’è più aiuti gli abitatori del presente a vivere una vita migliore e che le “sacre reliquie” degli abitanti, ormai, del nulla possano tutelare le relazioni umane (I Sepolcri).

Si accennava, all’inizio, altresì a Leopardi: la penna del recanatese spesse volte nei Canti si cimenta con il tema della “tomba”: nella maggior parte di esse con intento dimostrativo e ostensivo del suo pessimismo (“a noi presso la culla / Immoto siede, e su la tomba, il nulla.” (Ad Angelo Mai)), talvolta però con vette espressive d’elegia e lirismo come in A Silvia, che si conclude con gli indimenticabili versi: “All’apparir del vero / Tu, misera, cadesti: e con la mano / La fredda morte ed una tomba ignuda / Mostravi di lontano.”. La ginestra, da ultimo, è il canto ultimo della sua delusione – forse accorato rimpianto? “II mondo è un’immensa tomba – scrive in proposito Gülbende Kuray – e l’odorosa ginestra che vi cresce sopra è, secondo il poeta, il fiore del deserto della morte; è il fiore del grande cimitero che gli richiama alla mente un altro mondo defunto che, con le sue rovine ricorda la tramontata potenza di Roma”.

Abbondanti anche in Petrarca le ispirazioni sepolcrali. Laura è nella tomba, e la tomba vive in qualche modo di Laura, eletta alle schiere dei beati. Il dissidio tra amore e morte raggiunge lo spasimo e comprende il desiderio di un ricongiungimento nel sepolcro, simbolo e anticipazione, quasi, di un ricongiungimento in più alte e profonde dimensioni di salvezza. La canzone Chiare, fresche e dolci acque ci offre un segno sicuro del valore che il sepolcro ha per il poeta: egli desidera essere sepolto sulla sponda del fiume caro a Laura, così ella passando si ricorderà di lui, e gli impetrerà la grazia dal cielo. E poi, nel sonetto CCC: “Quanta invidia io ti porto, avara terra, / ch’abbracci quella cui veder m’è tolto, / e mi contendi l’aria del bel volto, / dove pace trovai d’ogni mia guerra.” Ma il pianto rimane accorato.

L’accoramento non prevale, invece, nella poesia di Dante. Nella Divina Commedia i “luoghi” dedicati alla sepoltura sono numerosi. Incrollabilmente certo della soluzione positiva dell’esistenza umana, l’immagine della tomba non attraversa negativamente il poeta e non lo sgomenta, ma si caratterizza, salvificamente, in modo differenziato. Lo statuto del sepolcro, e della sepoltura, è, infatti, legato alle scelte definitive operate dall’uomo. L’inferno, luogo della dannazione eterna, è così “la tomba” (Inf., XXXIV, v 128); la bolgia dei simoniaci è “la seguente tomba” (Inf., XIX, v 7). Lugubre è per i reprobi la tomba che ritroveranno alla resurrezione dei corpi: “ciascun rivederà la trista tomba, / ripiglierà sua carne e sua figura, / udirà quel ch’in etterno rimbomba” (Inf. VI, vv. 97-99); gli avari e i prodighi “In etterno verranno alli due cozzi: / questi resurgeranno del sepulcro / col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi” (Inf. VII, vv 55-57).

Opposta la condizione dei beati: essi, infatti, “al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando” (Purg., XXX, vv 13-15). Ancora, l’apostolo Giovanni, quasi felicitandosi con i decreti di Dio, afferma: “In terra è terra il mio corpo, e saragli / tanto con li altri, che ’l numero nostro / con l’etterno proposito s’agguagli” (Par., XXV, vv 124-126).

La beata condizione di Beatrice fa sì che la donna amata da Dante prenda spunto dalla sua sepoltura per ricordare al poeta l’importanza non delle cose terrene, ma di quelle celesti: “Mai non t’appresentò natura o arte / piacer, quanto le belle membra in ch’io / rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte; // e se ’l sommo piacer sì ti fallìo / per la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?” (Purg., XXXI, vv 49-54).

Non solo, ma avere degna sepoltura è addirittura un’aspirazione, un premio alla laboriosità domestica della donna moglie e madre: “Oh fortunate! ciascuna era certa / de la sua sepultura, e ancor nulla / era per Francia nel letto diserta.” (Par., XV, vv 118-120); e un premio alla fedeltà della sposa: “Non le farà sì bella sepultura / la vipera che Melanesi accampa, / com’ avria fatto il gallo di Gallura.” Così si lamenta Nino Visconti nel canto VIII del Purgatorio (vv 79-81) circa la moglie che, dopo la sua morte, è passata a nuove nozze.

Di sicuro il sepolcro attiva “la puntura de la rimembranza”, ma solo nei buoni e devoti, e dunque anche qui con funzione salvifica: “Come, perché di lor memoria sia, / sovra i sepolti le tombe terragne / portan segnato quel ch’elli eran pria, // onde lì molte volte si ripiagne / per la puntura de la rimembranza, / che solo a’ pïi dà de le calcagne” (Purg. XII, vv 16-21).

Ma dove il tema della tomba e della sepoltura ricorre di più è nei canti IX e X dell’Inferno, i canti degli eretici e dell’incontro con Farinata.

Qui la sepoltura eterna è dovuta alla negazione dell’immortalità dell’anima: l’anima che in vita rinnegò la propria immortalità eterna, ora in eterno è sepolta e sigillata: “E quelli a me: «Qui son li eresïarche / con lor seguaci, d’ogne setta, e molto / più che non credi son le tombe carche. // Simile qui con simile è sepolto, / e i monimenti son più e men caldi». / E poi ch’a la man destra si fu vòlto, // passammo tra i martiri e li alti spaldi.” (Inf. IX, vv 127-133).

Il luogo degli “eresiarche” è il luogo che si costruiscono, da sé e per sé, coloro che lottano contro la verità: un ammonimento per la modernità e la post-modernità che sembrano aver sepolto l’idea stessa di verità e di realtà.

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