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Nella vigna del Signore

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Immaginate 20 monache in campagna, tra le viti. Immaginatele “armate” di forbici, calzate di gambali di gomma, coperte da cappelloni di paglia, con la tonaca nera avvoltolata di poco per evitare il fango, e con ceste e cassette posate a terra vicino ai piedi. Immaginatele in una zona a sinistra del fiume Tenna – con Monte San Martino alle spalle, Smerillo di fronte e Amandola sulla destra – in un rettangolo di buona terra protetto dalla collina. Una clausura naturale per chi vive l’intera sua vita in clausura.
“Ora, Lege et Labora” non è slogan o sola sintesi ideale. È bussola e timone dei Benedettini; nel caso nostro, delle Benedettine. Dove il “labora” è pratica quotidiana. Specie in occasione della vendemmia.
“Ottobre: vino e cantina da sera a mattina”, recita l’adagio popolare. Lo conoscono anche le religiose,
che l’uva debbono raccoglierla per farne vino da messa, vino da pasto e vino da offerta ai pellegrini e ai cercatori d’infinito che, nello scombussolamento odierno, bussano alla porta degli edifici sacri. Giorni fa sono scese una dozzina dal monastero di Monte San Martino, in cinque da quello di Santa Vittoria in Matenano. Tra queste ultime, tre sono di origine nigeriana ed una etiope in verifica di vocazione. Mai avevano visto una vendemmia e ancor meno l’uva staccata dal tralcio e pigiata da diventar vino. Tutt’al più conoscevano l’olio estratto dalla palma. Occhi sgranati e voglia di fare. A capitanarle, le reverende madri badesse: suor Stefania e suor Ida, giovani tra le giovani, anziane tra le anziane. Come tante api operose, le nostre monache – una ventina, alla fine – sono sciamate tra i filari ordinati. Qualche scivolone dovuto alle piogge dei giorni precedenti, qualche battuta, tanti sorrisi e numerosi grappoli a cadere nei contenitori, deposti con leggerezza e grazia. Prima l’uva bianca e poi quella nera. Rigorosamente distinte. E nella testa il passo del Levitico che dice: “… quanto alla tua vigna, non raccoglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e il forestiero”. Suor Teresa è trattorista esperta. Ha raggiunto le consorelle con il mezzo meccanico sbuffante. Ha posizionato e spento il trattore, è scesa dal sellino e ha aiutato a sollevare le ceste. Meta: le antiche cantine del monastero, dove attendono le botti. Dalle viti, dunque, direttamente alla cantina, per pigiare i chicchi, spremerli, e metterne nel tino il ricavato. Dopo cinque ore di impegno, il pasto in comune. Alle 14 la tavolata è ancora più partecipata. Linda la tovaglia. Per l’appuntamento – mangiare insieme, garbatamente, modicamente, è un punto fermo per la “Regula” di San Benedetto – sono arrivate anche le monache inferme. Un momento di grande convivialità,
confermano le madri badesse. Un momento per trovarsi assieme e rinsaldare lo spirito fondante della Federazione benedettina: l’aiuto reciproco, il sostegno fraterno, “l’essere in comunione”.
A sera, festose, sono rientrate nei rispettivi monasteri. Per riprendere il ritmo delle loro giornate. Per immergersi di nuovo nel silenzio che dà forma alle cose, che ripristina il profondo nesso tra l’essere e la realtà. Quel “punto infiammato” di cui parlava Cesare Pavese. •

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